Parlare o scrivere di disabilità legittima l’esistenza della persona in quanto tale. Bisogna tenere in considerazione che il modo con cui affrontiamo un argomento inficia sulla culturale dell’accettazione di una determinata categoria sociale, nel bene o nel male.
Dunque serve studiare e conoscere la terminologia corretta da utilizzare, con l’obiettivo primario di determinare finalmente le persone con disabilità come individui appartenenti alla società – e non come qualcosa di altro.
Scrivere e parlare di disabilità: quali sono i concetti principali?
Prima di vedere i termini giusti da usare e quali invece sono da eliminare dal nostro uso quotidiano, serve una premessa concettuale. Il modo in cui usiamo le parole è il riflesso della nostra cultura. Quando parliamo e scriviamo di disabilità, dobbiamo tenere in considerazione che stiamo affrontando un processo culturale che porta inevitabilmente alla realizzazione dell’esistenza di concetti sociali di un certo tipo.
Nel nostro caso, quando parliamo di persone con disabilità, dobbiamo ricordarci di utilizzare i termini “persona” e “persone“, poiché prima di tutto stiamo raccontando storie di individui. Non dobbiamo sostantivizzare gli aggettivi.
Questa mossa ci permette di considerare la disabilità come un aggettivo, una sorta di ornamento, non come una malattia o l’unica caratteristica determinante della persona in questione. Lo scopo è evitare di identificare l’individuo unicamente con la propria disabilità.
Questo lavoro ci permette di affrontare un altro argomento: basta pietismi, basta tratti eroici forzati. Siamo di fronte a persone in carne e ossa, con pregi e difetti, non sono tutti “angeli scesi in terra”, non sono tutti eroi e superuomini.
Leggi anche: Storia del simbolo disabile: dalla dinamicità all’uomo vitruviano
Quali sono i termini corretti della disabilità?
Cosa possiamo dedurne? Che la terminologia “persona con disabilità” è un termine ampiamente accettato, così come in certi casi anche il suo sinonimo “persona disabile“. Sarebbe opportuno non utilizzare la parola “disabile” come sostantivo, ma andrebbe sempre accompagno da parole che identifichino l’individuo in quanto tale.
In aggiunta, bisogna evitare di relazionare la persona unicamente con la propria condizione in maniera pietistica. Perciò, come abbiamo visto prima, possiamo scrivere “persona con sindrome di Down“, “persona con morbo di Alzheimer“, “persona con SMA“, “persona con autismo” e via discorrendo. Si può usare “menomazione“, ma solo quando si fanno discorsi di natura tecnica.
Per quanto riguarda invece le condizioni legate alla vista e all’udito, è molto semplice: vanno utilizzati i termini puri, cioè “cieco” e “sordo“, senza alcuna negazione (quindi no a “non vedente” e “non udente”). Sugli ausili, il termine “sedia a rotelle” è un po’ desueto, meglio “carrozzina“.
Le parole da non utilizzare sulla disabilità
In base a quanto abbiamo visto, possiamo dedurre anche quali sono le parole da non utilizzare. Ad esempio, basta riferirsi alle persone con disabilità con “handicap” e “handicappato“, o qualsiasi locuzione a ciò che concerne l’handicap in senso stretto. Anche “affetto da disabilità“, “portatore di” e “diversamente abile” vanno tolti dall’uso comune. Così come “non vedente” e “non udente”.
Poi, ovviamente, va bloccata la cultura del pietismo: no a “poverino“, “speciale“, “infelice“, “angelo” e via discorrendo. Vanno anche eliminate le terminologie che descrivono in maniera dispregiativa una persona, come “anormale” o “deforme“. Infine, in riferimento alla carrozzina, non usare “costretto in carrozzina“.