Abbiamo contattato l'Ordine degli Psicologi per farci spiegare cos'è lo stress da pandemia e la figura dello psicologo di base
Stress da pandemia o stress da Coronavirus, comunque lo si voglia chiamare. Una condizione che il nuovo virus ha diffuso e permeato nelle nostre vite, trovando terreno fertile nel lockdown, nell’incertezza lavorativa e nella drastica diminuzione delle interazioni sociali.
Un fenomeno dai dati ormai decantati a destra e sinistra. In base alle prime rivelazioni raccolte nell’aprile 2020 dall’Istituto Piepoli, in collaborazione con l’Ordine degli Psicologi, il 63% degli italiani soffriva di una condizione tra insonnia, mal di testa, mal di stomaco, ansia, panico e depressione, mentre il 43% aveva consapevolizzato di vivere “un livello massimo di stress”.
Tuttavia, con il passare del tempo, si è arrivati ad affrontare l’argomento in maniera così liquida da diventare anch’essa un’informazione da spettacolarizzare, senza però guidare il lettore nella conoscenza di cosa effettivamente sia lo stress da pandemia.
Per questo motivo abbiamo chiesto alla consigliera dell’Ordine degli Psicologi, la dott.ssa Paola Medde, di rispondere a qualche nostra domanda in materia e chiarire alcuni degli aspetti legati allo stress da Coronavirus.
“Potremmo dire che si trattano di due aspetti che si intrecciano, più una differenza teorica che non pratica. Lo stress da Coronavirus è correlato alla pandemia. L’angoscia, in questo caso, ha come oggetto il pericolo del contagio, che ci costringe a vivere in uno stato di continuo allarme e riguarda la minaccia sanitaria che ognuno avverte per se stesso e i propri cari. Poi, collegati a questo, ci sono gli aspetti secondari, cioè i cambiamenti radicali che la pandemia ha comportato con quarantene, colore delle Regioni e cambiamenti drastici delle abitudini lavorative e sociali.
Tutto questo ha determinato un innalzamento significativo della quantità di stress, inteso questo come la richiesta di adattamento ai cambiamenti sopraggiunti nelle nostre abitudini, nelle routine della nostra vita. Apportare degli stravolgimenti, in un così breve periodo di tempo e in un clima di pericolo, ha aggiunto ulteriore stress e per tutti noi una maggiore fatica di gestione.
Da un punto di vista fisico lo stress si traduce in insonnia, mal di testa, perdita dell’appetito o aumento del desiderio di mangiare; dal punto di vista psicologico, possono presentarsi irritabilità, cambiamenti dell’umore, maggiore difficoltà di attenzione e la minore concentrazione: aspetti riguardanti i cambiamenti cognitivi ed emotivi.
Possiamo considerare la Pandemic Fatique non come un vero e proprio disturbo, ma come un’esperienza di stanchezza e sfinimento dovuta alla condizione prolungata dell’essere sospesi in uno stato innaturale e del non essere a conoscenza della fine di questo periodo.
Inoltre non aver la possibilità di ventilare la fatica della settimana con un weekend di libertà e non poterci concedere il piacere di incontrare degli amici o di fare un viaggio comportano stati emotivi di pesantezza, fatica appunto, che non ci è dato sapere se e quando muteranno.
Se nelle prime fasi della pandemia abbiamo reagito con velocità, ora dobbiamo cambiare il ritmo e comportarci da maratoneti, perché la prova che dobbiamo superare è di più lunga durata rispetto a quello che ci aspettavamo. La risposta adattiva non è a breve termine, come quella che abbiamo attuato nei primi mesi della pandemia. Oggi dobbiamo lavorare sulla resistenza a lungo termine, e questo genera fatica.”
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“Nel primo caso abbiamo l’impatto del grande cambiamento che ci ha coinvolti dal punto di vista della paura. Durante le prime restrizioni siamo stati tutti collaborativi perché ci avrebbero salvato la vita. Ora, poiché la situazione si sta allungando nel tempo, viene richiesto di diventare maratoneti. Prima invece abbiamo lavorato sullo sprint, sulla fatica di un qualcosa che immaginavamo a breve termine.
Nel frattempo la distanza di quelle che erano le nostre abitudini quotidiane aumenta, e quindi lavoriamo sulla resistenza a lungo termine, che non è rapidità di adattamento. Dal punto di vista psicologico, i sintomi sono simili: stress psicofisico. Secondo me, non c’è grande differenza. Semplicemente dalla prima situazione aggiungiamo la costanza nella rinuncia.”
“In questo momento sì, anche se cronica non significa che non ci sia la possibilità di intervenire. È importante che le persone si rendano conto della fatica che stanno provando e che ne parlino, con gli specialisti ma non solo. Può essere utile, a un primo livello, anche parlarne con amici e parenti, e trovare il modo di condividere le difficoltà, così da superare questo periodo di isolamento.
Purtroppo, in questi ultimi mesi, sono sempre meno gli spazi di condivisione e di comunicazione. Si moltiplicano le riunioni online, non c’è più la condivisione dello spazio umano. C’è stato sottratto il tempo per un confronto umanizzato con gli altri, che in questa situazione di prolungata – più che cronica – sofferenza è importante che trovi voce, anche se non necessariamente con uno psicologo.”
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“Troppo spesso si parla di ansia, depressione e fatica in maniera generica. E soprattutto ne parlano persone che non sono del mestiere. Il fatto che, ad esempio, chiunque le utilizzi dà l’idea che siano termini generici, e non specializzati e specializzanti.
Ansia, depressione e stress possono essere dei veri e propri disturbi inseriti nel DSM 5, un manuale di psichiatria: si trattano di disturbi che possono influire notevolmente sulla qualità della vita e che devono essere diagnosticati e trattati con interventi specifici da professionisti qualificati della salute mentale.
Bisognerebbe far sì che ogni volta che vengano pronunciate queste parole, ci sia uno specialista a poterne parlare, così come accade quando si parla di cardiopatie. In questo modo le persone possono identificare uno specifico professionista al quale fare riferimento e comprendere se il loro stato psicologico necessiti di un intervento.”
“Attualmente la decisione di rendere operativo lo psicologo di base è in capo alle Regioni. Nel Lazio, come Ordine abbiamo segnalato l’opportunità che il decreto Calabria può offrire. Soprattutto in un periodo come quello che stiamo vivendo, l’opportunità che potrebbe offrire ai cittadini sarebbe quella di garantire il diritto alla salute, anche mentale, costituzionalmente riconosciuto. Se non riusciremo a intervenire prontamente su queste situazioni di disagio pagheremo negli anni futuri le conseguenze di ciò che non abbiamo potuto e saputo affrontare tempestivamente oggi.
La possibilità di avere psicologi sul territorio che collaborino con i medici di medicina generale potrebbe rappresentare la risposta, anche di tipo preventivo, a tutte quelle difficoltà che in questo periodo non hanno trovato risposte da parte dei servizi. Un po’ perché la pandemia li ha chiusi, un po’ perché la richiesta è notevolmente aumentata.
Per esempio, in questi mesi abbiamo visto una esplosione di disturbi del comportamento alimentare, come l’anoressia o bulimia, settore del quale mi occupo, che purtroppo hanno dovuto rinunciare alle cure ospedaliere e ambulatoriali perché non hanno trovato posto o perché non aperti o funzionanti in modo ridotto causa Covid.
Ma possiamo anche pensare ad altre situazioni. Immaginiamo chi ha perso il lavoro oppure le acuzie nell’ambito delle relazioni matrimoniali, peggiorate dalle coabitazioni forzate e che saranno ancora costrette ad abitare insieme poiché le risorse economiche di tipo familiare sono notevolmente ridotte.
Tutti questi problemi, che c’erano già prima del Covid ora sono aumentati, e non si risolveranno quando si concluderà la pandemia. Dobbiamo trovare un modo per rendere accessibile i servizi di psicologia alle persone, e lo psicologo di base è sicuramente molto utile perché permetterebbe di distribuire questa cura sul territorio, così da essere facilmente riconoscibile per tutti e permetterebbe al professionista di conoscere il territorio e i suoi bisogni.”
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“Dipenderà dalle capacità che avranno i nostri politici di saper gestire questa crisi pandemica, dalle risorse che verranno messe a disposizione e dalle strategie di intervento. Maggiore protezione rispetto al virus, maggiori servizi adeguati ai bisogni emergenti, maggiore abilità nel saper intervenire sulle criticità saranno, evidentemente, fattori prognostici positivi per aumentare la capacità di poterci reinserire, riprogettare e ripristinare una possibile normalità.
Certamente sarebbe auspicabile che i decisori politici possano servirsi anche di consulenti psicologi capaci di poter elaborare strategie di intervento che possano tenere conto anche delle componenti emotive e cognitive correlate al periodo che stiamo vivendo.”
“Dipende dalle cause di stress. Ci sarà chi si sente stressato perché ha ridotto la propria attività fisica, chi perché privato della libertà o perché minacciato dal punto di vista del lavoro.
La prima cosa è acquisire consapevolezza sulla causa del nostro stress, qual è la cosa più importante che sentiamo che ci è stata tolta, muovendoci il più possibile cercando di compensare quel bisogno – compatibilmente con quelli che sono i vari Dpcm e i colori delle Regioni.
Ad esempio, la persona che sente ridotta la propria attività fisica, deve riconoscere in questo un suo bisogno e cercare in qualche modo di sfamarlo. Per quanto riguarda le attività sociali, in parte sono riprese: in condizione di sicurezza è possibile incontrare degli amici.
Se invece sentiamo di essere sobbarcati dal lavoro, avere un’organizzazione del tempo e dello spazio è sicuramente importante. Ma questi sono suggerimenti generici, uno specialista aiuta a identificare meglio i bisogni e a trovare delle strategie di risoluzione del problema che possano soddisfare parzialmente quel bisogno non soddisfatto.”
“Hanno influito notevolmente per una serie di fattori, che non sono cause ma conseguenze. In primis la mancata organizzazione strutturata, e non specifica, dello smart-working e della Dad.
Se prima della pandemia si diceva che bisognava staccarsi dallo schermo ogni tot di tempo come indicazione di buona salute, adesso queste prescrizioni sono state completamente dimenticate. Ci siamo esposti a una situazione dannosa per la nostra salute psicofisica.
Rimanere ore e ore collegati, senza tempo, senza spazi, con persone coinvolte 24 ore su 24 con l’esigenza di controllare il lavoro altrui, programmando riunioni su riunioni, dipende dal fatto che nessuno ha sviluppato un sistema di management adatto. In più dobbiamo ricordarci che molte della nostre capacità creative e di problem-solving passano attraverso gli aspetti socializzanti.
La possibilità di confrontarsi con un collega, anche alla postazione caffè, apre nuove vie dal punto di vista della creatività e della risoluzione delle difficoltà. Senza questo scambio rimane un compito cognitivo, mentre gli aspetti della conoscenza li abbiamo anche da fattori emotivi.
Dad e smart-working hanno sicuramente peggiorato il problema, poiché hanno creato un isolamento dal contesto lavorativo e scolastico, e contemporaneamente un isolamento domestico. Davanti un pc sei contemporaneamente isolato dai compagni e dai familiari. Passi da un contesto all’altro, non capisci più dove stai.”
“Esatto, e la cosa peggiore è che per tentare di porre rimedio alle difficoltà che emergono si procede con sperimentazioni che non vengono né programmate né verificate, come per esempio la presenza a settimane alterne a scuola. Nel tentativo di porre rimedio all’isolamento e alla mancanza di attività di socializzazione dei ragazzi si è pensato di proporre questa modalità di partecipazione alternata alla Dad.
In realtà, se si ascoltassero le esperienze riportate dai ragazzi, scopriremmo che questa strategia non sta funzionando. Così i ragazzi non socializzano. Lavoro con molti adolescenti e mi dicono che per loro è una fatica enorme, perché devono alternativamente riparametrarsi come turnisti, e sappiamo che lavorare su turni è deleterio dal punto di vista dello stress. Questo a prescindere dalle scuole, è molto diffuso e li sta facendo stressare.
I professori, preoccupati di non avere tempo per valutare gli apprendimenti e anche loro fortemente in difficoltà e messi a dura prova dalla Dad, aumentano la mole di studio e di verifiche settimanali. Dovremo, presto, occuparci anche delle conseguenze di questa nuova modalità operativa. Ricordiamo che i giovani sono quelli che sono stati più colpiti, emotivamente, da questa pandemia.
È stato tolto loro un pezzo fondamentale della vita, quello del confronto con il gruppo dei pari, della possibilità di esplorare, di superare i limiti, della libertà di manifestare e di poter partecipare ad eventi collettivi, fondamentali per il confronto e per la crescita personale. Non dobbiamo quindi trascurali, ma occuparcene il prima possibile con soluzioni non improvvisate ma pensate nelle conseguenze a breve, medio e lungo termine.”
Ultima modifica: 18/02/2021