Nella storia la strategia del boicottaggio delle Olimpiadi e Paralimpiadi è stata spesso usata. A quali risultati ha portato?
Storicamente parlando, il boicottaggio delle Olimpiadi e Paralimpiadi non è mai stato particolarmente incisivo su questioni politiche, sociali e umane. Anche il recente boicottaggio diplomatico operato da alcuni paesi contro le Olimpiadi e Paralimpiadi di Pechino 2022, che consiste nell’assenza dei funzionari politici del Paese aderente l’iniziativa ai Giochi, non sta generando effetti particolari.
Da diversi anni contro la Cina sono state sollevate polemiche per le numerose violazione dei diritti umani perpetrate nei confronti delle minoranze etniche, come gli uiguri e i tibetani, documentate da diverse testate giornalistiche internazionali (dove si parla anche di campi di concentramento). In merito agli uiguri, gli Stati Uniti d’America hanno addirittura parlato di “genocidio“. Tutte accuse rispedite al mittente da parte di Pechino, che ha più volte risposto alle altre nazioni di non creare interferenze su questioni interne.
Nonostante tale contesto, la pista scelta per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su questi fatti è il boicottaggio “soft” di Pechino 2022, una decisione che non sembra aver creato ricadute determinanti per la lotta alle violazioni dei diritti umani. Probabilmente i rapporti tra Cina e USA sono incrinati sul piano sportivo e politico, ma nulla di più. Come mai sono arrivati solo questi risultati?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo chiedere alla storia. Pechino 2022 non è la prima manifestazione olimpica a essere oggetto di un boicottaggio, ma nella lunga cronaca dei Giochi ci sono stati diversi tentativi, tutti andati più o meno a vuoto (o che non hanno sortito pesanti conseguenze).
Il primo storico boicottaggio delle Olimpiadi (mancato, poiché non sarà mai attuato) risale all’edizione di Berlino 1936, i Giochi della Germania Nazista. La manifestazione fu assegnata ai tedeschi nel 1931, ben prima della venuta di Adolf Hitler, con l’obiettivo di far rientrare il Paese nella comunità internazionale a seguito della sconfitta subìta nella Prima Guerra Mondiale.
Con l’avvento del Fuhrer però, le cose cominciarono a prendere un’altra piega, tanto che gli Stati Uniti d’America espressero preoccupazione per il trattamento che la Germania riservava agli atleti ebrei e ad altre minoranze. Berlino rispose invitando in patria nel 1934 l’allora presidente del Comitato Olimpico Americano, Avery Brundage, per placare ansie e preoccupazioni. Risultato? Brundage dichiarò che gli atleti ebrei venivano trattati in maniera equa a tutti gli altri.
A generare scalpore non fu solo questa decisione, ma anche le parole che ne seguirono: “Alcuni ebrei devono capire che non possono usare questi Giochi come un’arma nel loro boicottaggio contro i nazisti”, aggiungendo che la campagna anti-olimpica è una “cospirazione ebraico-comunista” (The Washington Post). Contro Brundage, si sollevò la figura di Jeremiah Mahoney, l’allora presidente della Amateur Athletic Union, il braccio di controllo del Comitato Olimpico Americano. In più di un’occasione, Mahoney promise il boicottaggio delle Olimpiadi di Berlino 1936.
Vale la pena ricordare che la persecuzione degli ebrei da parte della Germania nazista era già in corso, tra il progetto Aktion T4 e le Leggi di Norimberga del 1935. Nonostante questa campagna di boicottaggio, che vide anche la nascita di manifestazioni antinaziste negli USA, nel dicembre 1935 si giunse a un nulla di fatto: il voto richiesto dall’AAU non andò a favore di questo piano, Mahoney rassegnò le dimissioni e Brundage lo sostituì. Il resto è storia nota.
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Bisognerà aspettare qualche anno più tardi per assistere al primo vero boicottaggio delle Olimpiadi, avvenuto con Melbourne 1956. In questo caso, furono diversi i paesi che non presero parte ai Giochi, come diversi i motivi per i quali non vennero inviati gli atleti.
Cominciamo dalla Cina, che decise di non prendere parte alla manifestazione olimpica a causa della questione Taiwan: la nazione insulare fu invitata a partecipare come Paese a sé, decisione non gradita da Pechino, che rivendicava la sovranità sull’isola. Una questione di grande impatto e fortemente attuale anche nei giorni nostri – e che dimostra come quella forma di boicottaggio non sia servita granché. Invece Egitto, Cambogia, Iraq e Libano decisero di evitare i Giochi per via della crisi del canale di Suez, che subì un’invasione militare da parte di Regno Unito, Francia e Israele.
In seguito anche Spagna, Paesi Bassi e Svizzera non inviarono i propri atleti alla competizione per protestare contro l’invasione dell’URSS in Ungheria avvenuta poche settimane prima: l’Armata Russa intervenne per sedare la rivoluzione ungherese nata contro il regime dell’Unione Sovietica.
L’Ungheria prese comunque parte alle Olimpiadi, conquistando anche una medaglia d’oro proprio contro l’Unione Sovietica nella finale della pallanuoto maschile: l’evento viene ricordato come il “Bagno di sangue di Melbourne“, poiché il match fu concluso anzitempo a causa di una rissa. Tuttavia, nonostante queste vicende, i boicottaggi non determinarono esiti particolari sul piano internazionale.
Effetti di grande portata non vennero registrati neanche durante la Olimpiadi di Tokyo 1964 (la prima organizzata nel continente asiatico). Addirittura in questa edizione il boicottaggio non fu così ampio come visto con Melbourne 1956.
Ad abbandonare i Giochi furono Cina, Indonesia e Corea del Nord a causa di una diatriba accesa causata dalla nascita dei GANEFO, i Giochi delle Nuove Forze Emergenti, che promettevano di essere un’alternativa internazionale alle Olimpiadi. Presa come un atto di sfida, il Comitato Olimpico Internazionale decise di squalificare tutti gli atleti che gareggiarono ai GANEFO del 1963.
Ma le Olimpiadi di Tokyo 1984 furono anche lo scenario della prima rinuncia alla competizione da parte del Sudafrica, a causa della politica di apartheid iniziata nello stesso anno, e che si sarebbe conclusa solo 26 anni dopo, nel 1992, quando venne abolita la politica di segregazione razziale: fino ad allora, il Paese africano non partecipò mai ai Giochi.
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Le Olimpiadi di Città del Messico del 1968 sono ricordate in tutto il mondo per il simbolico gesto del pugno chiuso portato nel cielo dai velocisti statunitensi Tommie Smith e John Carlos, arrivati rispettivamente primo e terzo nella finale dei 200 metri, e che furono catturati dal sapiente sguardo del fotografo John Dominis.
Dietro questo gesto si nasconde un percorso che nacque qualche tempo prima dell’inizio della manifestazione olimpica. All’epoca il contesto americano era abbastanza complesso: all’estero era il tempo della guerra in Vietnam, mentre all’interno nel 1966 c’era stata la marcia di Selma (Marce da Selma a Montgomery) per i diritti civili degli afroamericani, il 4 aprile 1968 venne assassinato Martin Luther King e il 5 giugno 1968 fu ucciso Bobby Kennedy.
Un drammatico contesto in cui il sociologo nero Harry Edwards sollevò spesso la voce grazie alla fondazione nell’ottobre 1967 dell’Olympic Project for Human Rights (OPHR), patrocinato anche dagli stessi Smith e Carlos, al fine di protestare contro la segregazione razziale negli Stati Uniti d’America. Una delle azioni dell’OPHR fu esortare gli atleti neri a boicottare le Olimpiadi di Città del Messico, senza però ottenere successo, ma instillò l’idea nei due velocisti di realizzare un gesto simbolico in caso di vittoria.
Paradossalmente Melbourne 1976, Tokyo 1964 e Montreal 1976 sono edizioni legate tra loro per via delle motivazioni che spinsero alcuni paesi al boicottaggio. Come mai? Basta vedere chi e perché ha operato tale scelta. Per fare esempio, ancora una volta torna il caso Taiwan. A seguito dell’esclusione della Cina, l’isola chiese di partecipare alla competizione con il nome di “Repubblica di Cina”, ma il Canada non lo concesse.
Più drammatica invece fu la questione riguardante l’apartheid. Circa una trentina di paesi africani (il numero esatto dovrebbe essere 27) decisero per il boicottaggio delle Olimpiadi a seguito di motivi sportivi (ma non olimpici). Era già notizia nota infatti che la nazionale di rugby della Nuova Zelanda avesse disputato delle partite in Sudafrica contro diverse formazioni locali, nonostante ci fosse un embargo caldeggiato dall’ONU contro il sistema di segregazione razziale.
Il contesto è tutto fuorché sereno: la tournée sudafricana della Nuova Zelanda si inserisce in un momento di forti proteste contro il regime di Pretoria, causate altresì dalla repressione della rivolta esplosa a Soweto (studenti e docenti neri si ribellano contro un decreto governativo sull’utilizzo della “lingua degli oppressori”, l’afrikaans). Le violenze del governo locale portarono alla morte di tantissimi manifestanti.
Così il 3 luglio 1976 il Consiglio Superiore dello Sport Africano, su iniziativa della Tanzania, chiese al Comitato organizzatore canadese di revocare l’invito alla Nuova Zelanda (visti gli evidenti legami sportivi con il Sudafrica), altrimenti sarebbe stato boicottaggio. Il CIO decise di astenersi, asserendo che il rugby non è disciplina olimpica. La richiesta non fu accolta, e così dal continente africano solo Senegal e Costa d’Avorio partirono alla volta delle Olimpiadi di Montreal 1976.
Finora abbiamo raccontato di boicottaggi che non hanno scaturito veri e propri cambiati nel breve e lungo periodo. E la storia non cambiò nemmeno con Mosca 1980, sebbene questa edizione è ricordata per essere la più famosa in termini di tentativo di sabotaggio.
Prima di tutto, il contesto dell’epoca: siamo in piena Guerra Fredda e il binomio di contrasto è quello tra Washington e Mosca. I due paesi sono agli antipodi, e spesso nascono occasioni per sottolineare il precario equilibrio nei rapporti diplomatici tra USA e URSS. Mosca 1980 non sarà da meno.
In questo caso, il boicottaggio delle Olimpiadi venne deciso dagli Stati Uniti d’America, con lo scopo di protestare contro l’invasione sovietica in Afghanistan, avvenuta nel dicembre 1979. Gli USA furono seguiti da 65 paesi, tra cui Canada, Israele, Giappone, Cina e Germania Ovest, mentre altre nazioni (come Italia, Gran Bretagna e Francia) permisero ai propri atleti di gareggiare sotto bandiera olimpica. Ai Giochi partecipò persino la stessa Afghanistan.
Da quell’olimpiade la Russia ne uscirà con 195 medaglie complessive (di cui 80 d’oro), finora il record storico imbattuto alle Olimpiadi, ma perse sostanzialmente numerosi partecipanti, che complessivamente furono soltanto 80 nazioni. Invece a livello diplomatico successe poco e nulla: l’invasione in Afghanistan terminerà 9 anni dopo, la Guerra Fredda rimase e i rapporti tra USA e URSS peggiorarono solo per un breve periodo.
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La risposta dell’Unione Sovieta non tardò ad arrivare, ma non ebbe la stessa portata sportiva della precedente edizione olimpica. Quattro anni dopo, l’URSS e 14 paesi del blocco sovietico (tra cui Germania Est) decisero di boicottare l’Olimpiade di Los Angeles 1984 per i “sentimenti sciovinisti e isteria anti-sovietica” degli USA.
L’impatto non fu così devastante, anzi l’edizione di Los Angeles sorrise agli statunitensi: nuovo record di presenze con 140 paesi partecipanti (tra cui la Cina), 83 medaglie conquistate dal Paese a stelle e strisce, evento più visto fino a quel momento in televisione e straripante successo economico (venduti il doppio dei biglietti rispetto all’edizione precedente). Per quanto riguarda il politico di medio-lungo periodo, non ci furono conseguenze.
In seguito i boicottaggi registrati non ebbero una portata mediatica impressionante come quelli passati. Vale la pena ricordare il caso di Seul 1988, Olimpiade assegnata alla Corea del Sud e contrassegnata dal ritiro della Corea del Nord. Motivo? Inizialmente il Nord voleva organizzare i Giochi insieme al Sud, ma non fu concesso.
Così la Corea del Nord avanzò il proprio boicottaggio, che fu seguito solo da 5 Paesi del blocco orientale (tra cui Cuba di Fidel Castro). Un risultato misero, visto che anche l’URSS e la Cina decisero di prendere parte alla manifestazione sportiva.
Più recentemente la Russia registrò l’assenza dei rappresentati del governo statunitense alle Olimpiadi di Sochi 2014: l’allora presidente USA Barack Obama, l’allora first lady Michelle Obama e l’allora vicepresidente Joe Biden attueranno un boicottaggio diplomatico, con l’obiettivo di protestare contro le politiche del Cremlino attuate per limitare i diritti delle persone omosessuali. Una decisione che non produsse nessun effetto su scala internazionale.
Lo scopo dei boicottaggi delle Olimpiadi e delle Paralimpiadi è creare consapevolezza nell’opinione pubblica e, ovviamente, determinare dei cambiamenti a livello sociale, politico e umanitario. Almeno queste sono le intenzioni. In base a quanto abbiamo visto però, ciò non è mai avvenuto. Anzi, in certi casi abbiamo registrato occasioni mancate, in altri invece è stato più un processo di facciata.
Insomma, i boicottaggi sportivi non danno l’idea di essere la strategia migliore per difendere determinate questioni umanitarie e sociali, sia nel breve sia nel lungo periodo, soprattutto perché la coesione tra i paesi è fine a se stessa, oppure garantita da accordi commerciali, politici e sociali. Qualcosa deve cambiare se il boicottaggio vuole diventare una vera arma di dissenso internazionale.
Da dove ripartire? Dal caso del Sudafrica. Secondo gli analisti dell’Economist, il boicottaggio trentennale compiuto contro il Paese africano è stato uno dei fatti (sebbene non il più eclatante, importante o decisivo) per la fine dell’apartheid. In fin dei conti, qualcosa di buono da raccogliere c’è: ora serve seminare.
Ultima modifica: 10/02/2022