Le persone Down incluse nello studio sono così ripartite: il 57% maschi e il 43% femmine nell’età compresa tra i 5 e i 55 anni di età. Si tratta di un campione molto eterogeneo soprattutto in termini anagrafici, con situazioni di vita molto diverse fra loro. Nella quasi totalità dei casi i ragazzi e le ragazze Down nell’età compresa tra i 7 e i 14 anni frequentano la scuola, mentre nella fascia di età successiva, dai 15 ai 24 anni, la quota di chi studia si riduce sensibilmente. In questa fascia di età infatti circa il 10% frequenta corsi di formazione, e solo l’11% riesce a trovare un’occupazione. Complessivamente un adulto su quattro non ha attività e rimane a casa.
Quanto più le persone con sindrome di Down si avvicinano alla età adulta, tanto più emerge nei confronti dei coetanei la loro difficoltà in termini di autonomia. Ma purtroppo è nel momento in cui termina il percorso scolastico (di fondamentale importanza viste le esperienze e le attività che i ragazzi hanno l’opportunità di vivere) e si avvicina la possibilità di un impegno nel campo del lavoro che questa disabilità diventa più evidente, andando così ad influire in modo importante sul futuro di queste persone.
Ma cominciamo dall’inizio. Un dato molto significativo è il livello inadeguato e le modalità con cui, dopo la nascita, viene comunicato ai genitori la disabilità del figlio. I numeri della ricerca evidenziano come nel 75% dei casi accada che la diagnosi non venga comunicata ad entrambi i genitori contemporaneamente, mentre in altri accade che il risultato positivo della diagnosi venga solamente espresso come possibilità più che come un fatto realmente concreto. Nel 51% dei casi con la comunicazione è frettolosa, e nel 54% è caratterizzata da una scarsezza di contenuti informativi. E se qualcosa in questo senso sta migliorando, è evidente che la strada da fare sia ancora molta.
La reazione emotiva alla diagnosi e all’irruzione di questa patologia nella vita di una famiglia è un tema complesso e difficile da approfondire. I numeri che emergono dalla ricerca evidenziano per quasi il 60% degli intervistati un sentimento immediato di paura, di negazione della realtà, di incredulità e, per il 27% degli intervistati, di rabbia.
Le reazioni emotive positive sono largamente minoritarie e sono così suddivise: ottimismo e fiducia per il 13%, sollievo per il 7%, rifiuto del figlio per il 4,8% dei casi. Ma nel giro di qualche settimana queste cifre cambiano sensibilmente, e con esse lo scenario emotivo.
La risposta sulla quale gli intervistati hanno maggiormente insistito riguarda la voglia ed il tentativo di condurre una vita il più normale possibile: lo stabilirsi di una normalità di vita risulta quindi essere l’elemento più importante nel cambiamento emotivo nei confronti dell’evento sfortunato.
Tuttavia è stato rilevato anche come un significativo numero di famiglie ha subìto una più o meno marcata quota di isolamento, tanto più elevata quanto più è basso il il livello di istruzione di amici ed affini.
Lo studio ha infine evidenziato quali sono gli elementi che hanno aiutato ad affrontare positivamente la situazione:
Sotto il profilo sanitario, oltre l’80% delle famiglie indica di avere come punto di riferimento unico il pediatra o il medico di medicina generale, mentre in un quinto dei casi la famiglia preferisce affidarsi ad uno specialista.
La criticità legate all’erogazione dei servizi di riabilitazione rimangono abbastanza diffuse: oltre la metà degli intervistati ha indicato di essersi rivolta alle organizzazioni sanitarie private per carenza di strutture pubbliche.
Ultima modifica: 08/03/2020