Il Festival di Sanremo 2025 è un palco suggestivo per chiunque, artista e non. Grazie alla sua potenza mediatica, ogni storia ha una portata immensa, e può cambiare la narrazione sociale, influendola in maniera massiccia. Il pubblico può guardare a certe categorie di persone senza cliché, soprattutto se quella determinata categoria è storicamente vessata da stereotipi di ogni forma e contesto.
Ciò riguarda peculiarmente le persone con disabilità, ma abbraccia per lo più ogni aspetto umano: dal cantante con il tatuaggio a una supermodella con il cancro. Ogni persona (e personaggio) che sale sul palco dell’Ariston diventa un simbolo, e il modo in cui questo simbolo viene raccontato e rappresentato può influenzare le dinamiche sociali e la percezione comune: perché la comunicazione sedimenta, crea un seme da cui poi, nel lungo periodo, bisogna raccogliere i frutti.
Una consapevolezza che dovrebbe essere intrinseca nella kermesse musicale più famosa d’Italia, ma che nei fatti inciampa sempre nei soliti errori. Perché ancora una volta, come abbiamo potuto già constatare in un nostro approfondimento, neanche il Festival di Sanremo 2025 ha saputo cogliere l’occasione di dare spazio alla diversità senza dover morbosamente parlarne.
Il ricordo di Sammy Basso
C’è un aspetto che bisogna sempre considerare: ognuno di noi si racconta come meglio crede, indipendentemente da tutto, e va bene così. Se una persona vuole dare ampio spazio alla propria condizione, anche in modo pietistico, lo può fare; se qualcun altro si vuole raccontare con ironia, è giusto così; se un altro vuole evitare di parlare di certe situazione, è più che giusto.
Perché ognuno di noi deve avere l’opportunità di raccontare la propria storia, che deve essere narrata attraverso le nostre parole, e gli altri devono essere un megafono di quelle parole, non interpreti. Per cui, se una persona si rappresenta in un certo modo, ciò non ci dà il diritto di re-interpretarlo a priori, ma di essere un suo megafono, adottando il suo linguaggio, il suo credo, la sua volontà.
Deve essere una scelta della persona che decide di raccontarsi, non un nostro diritto. Al massimo, possiamo criticarlo, possiamo non essere d’accordo, ma non dobbiamo cambiare l’intenzione comunicativa della persona.
Eppure la memoria di Sammy Basso al Festival di Sanremo 2025 è stata orientata più alla sua condizione, la progeria, rispetto ad altro. “Amava la vita, nonostante tutto, amava la vita. Ci ha insegnato cosa significa amare la vita”, ha detto il presentatore Carlo Conti. “Pesava come una mela, e la gente impazziva, sembrava che portassi sul palco una rockstar”, ha rincalzato Jovanotti.
Sicuramente entrambi sono stati mossi da un legame umano che li univa con Basso, ma restano comunque frasi abiliste e di inspiration porn, volte ad affermare lati positivi del carattere di Sammy unicamente in base alla sua condizione. E dimenticando di raccontare pienamente altri aspetti, come il fatto che fosse un ricercatore e un accademico, un professionista del suo settore. Invece è stato solo detto che era “uno studioso”.
O comunque si poteva affermare che Basso amava la vita, perché era nella sua indole e nel suo carattere, senza aggiungere altro. Invece no. Troppe volte una persona viene raccontata per una sua etichetta, meno nella sua completezza.
Bianca Balti dribbla l’attenzione sul cancro
Se pensiamo che certe dinamiche accadono solamente alle persone con evidenti disabilità, e che agli altri non accadrà mai, è bene prendere in esame il caso di Bianca Balti. Lei lo aveva detto, lo aveva promesso: la sua malattia non sarebbe stata al centro della discussione sanremese, la sua presenza non sarebbe stata cornice del cancro. “Credo che ovunque ci giriamo vediamo del dolore, ma non sono qui per questo. Vengo a Sanremo non per parlare della malattia ma per celebrare la vita”, ha affermato in conferenza stampa.
Eppure, in più di un’occasione, Carlo Conti ha tentato di smontare questa sua legittima decisione, appellando alla supermodella il titolo di guerriera: “Ecco a voi Bianca Balti, soprattutto in questo periodo una guerriera”, ha detto il presentatore accogliendola sul palco dell’Ariston. Lei, con grande eleganze, ha rispedito al mittente, dando prova coi fatti che lei non è la sua malattia, ma è stata chiamata all’Ariston in qualità di professionista – un messaggio simile a quello imbracciato da Antonella Ferrari a qualche Sanremo fa.
Ma Conti – e probabilmente anche i suoi autori – ci riprova, perché si sa, il linguaggio della televisione (o comunque dei media in generale) puntano a questi aspetti qua: creare pietismo, creare eroi, creare share, perché sono queste le uniche emozioni che scattano nelle persone. O almeno così ci hanno insegnato.
“Devi essere un grande esempio per tante donne”, dice lui; “Soprattutto noi donne siamo d’esempio a molti uomini”, replica lei dopo qualche secondo di silenzio. Insomma, lei cercava di fare solo il suo lavoro, altri invece volevano sottolineare la china sulla sua condizione.
Alla fine Balti è riuscita a dribblare qualsiasi frase, ed ha fatto l’impresa: non ha invalidato la propria malattia e non l’ha data in pasto come fosse un prodotto televisivo. Invece è riuscita a dare l’immagine di una professionista che fa il suo lavoro, antitetica a quella di una guerriera a tutti i costi. Bianca Balti non è la sua malattia, ma può esserlo se gli altri cominciano a fissarla, giudicarla ed etichettarla unicamente come una guerriera che lotta contro un male incurabile.
Dove solo le Paralimpiadi a Sanremo 2025?
Un altro aspetto interessante riguarda l’apertura delle candidature per diventare tedofore e tedofori alle Olimpiadi e Paralimpiadi di Milano-Cortina 2026, andata in scena a Sanremo 2025.
Un appuntamento incredibile, quasi storico, e soprattutto un’occasione fondamentale per mettere ancora più in risalto anche i Giochi paralimpici, visto tutto il lavoro fatto dal movimento in questi ultimi anni, che ha portato il pubblico ad avere un approccio più concreto e meno pietistico di fronte agli atleti paralimpici.
A stonare però è l’occasione mancata da parte della macchina di Conti di fronte all’opportunità di dare spazio al racconto delle Paralimpiadi invernali: sostanzialmente, è mancato un rappresentate di questa kermesse sportiva, un simbolo di questo movimento, qualcuno che incarnasse il valore sportivo paralimpico.
E allora, alla fine, ha ragione Martina Caironi quando affermò in un nostro podcast che l’unico palcoscenico delle persone con disabilità sono le Paralimpiadi, che permettono di raccontare in autonomia la propria storia, senza filtri (com’è stato per il caso di Rigivan Ganeshamoorthy). E infatti fuori dai Giochi, diventa difficile, quasi inopportuno. Tanto che la parola “paralimpici” viene detta una sola volta, poi il nulla cosmico.
Teatro Patologico, parole da dimenticare a Sanremo 2025
“Pietismo? Non sarà il nostro caso”, aveva detto ad Ability Channel Dario D’Ambrosi, fondatore del Teatro Patologico, prima di portare in scena a Sanremo 2025 la sua compagnia teatrale composta da attori con varie condizioni mentali. Le aspettative erano buone, e alla fine sono loro ad aver scelto come raccontarsi.
Lo stesso D’Ambrosi ha esclamato che “la vita senza di loro sarebbe una noia pazzesca”, rivolgendosi alla propria compagnia. “Saremo all’ONU per parlare di Teatroterapia come cura di questi ragazzi”, ha poi aggiunto nel finale. L’unica domanda che resta è una sola: in che senso?
Il Teatro Patologico resta comunque un contesto professionale, ma queste parole possono far incrinare l’aspetto per cui è necessario battersi a livello comunicativo-sociale. Siamo combattuti: da una parte, c’è sempre l’idea che le persone hanno il diritto di raccontarsi come meglio credono, dall’altra bisognerebbe capire se anche gli attori condividono i messaggi profusi sul palco.
Se pensate che questo non abbia conseguenze, vi facciamo ricredere subito. Il giorno dopo, sono stati diffusi svariati titoli verticali: per fare degli esempi, “I ragazzi del Teatro Patologico portano la salute mentale a Sanremo“; “A Sanremo i ragazzi del Teatro Patologico ci danno una lezione di coraggio e umanità“; “SANREMO 2025 – “Il Teatro Patologico ha portato il tema della disabilità al teatro Ariston“.
Insomma, tutta l’attenzione si è concentrata solo su un aspetto, sul valore sociale, meno quello professionale. E così il Teatro Patologico a Sanremo 2025 è diventata un’etichetta. Qualcosa da ammirare in primis, perché c’è una solennità di buonismo e bontà da rispettare.
Sanremo 2025 poteva fare decisamente meglio
Ogni tassello nella comunicazione è fondamentale, non solo perché delinea il quadro della nostra società, ma disegna figure e personaggi che influenzano la percezione delle persone nei confronti delle altre. Se ciò che viene realizzato è una figura stereotipica, inserita in un contesto di grande spessore mediatico, ecco che combattere cliché diventa sempre più difficile. Ma anzi, un palco può diventare una prigione dalla quale è difficile evadere.
Di questo alcuni addetti ai lavori dovrebbero riflettere, alla fine del Festival di Sanremo 2025. Perché è inammissibile constatare questi errori comunicativi dopo anni di lotte sui diritti, di presa di consapevolezza sull’esistenza della diversità, l’astio profuso nei confronti di chi mitizzazione e pietismo.
Indirettamente, sembra che il Festival di Sanremo 2025 abbia voluto affermare con forza che il pubblico desidera questa narrazione, che le persone coinvolte vogliano farsi raccontare in questo modo, che il mercato dello share altro non può essere se non figure pietistiche e supereroiche. È davvero questo che il Festival di Sanremo pensa delle persone?
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