Inclusione scolastica: è uno dei capisaldi della #buonascuola voluta dal premier Renzi e la cui riforma è stata recentemente approvata in Senato. Se sulla carta “inclusione scolastica” significa creare un ambiente capace di risponde ai bisogni di tutti i bambini e in particolare di quelli speciali, nella realtà gli oltre 80mila insegnanti di sostegno che ogni giorno lavorano nelle scuole italiane potrebbero darne un’interpretazione diversa. Studenti di serie B, emarginazione, incompetenza del personale. Vediamo le due realtà a confronto.
Il cuore del capitolo 12 del decreto legislativo
La riforma della scuola, in particolare del sostegno scolastico, prevede la creazione di 4 ruoli, uno per ciascun livello di istruzione fino alla scuola secondaria di secondo grado. Occorreranno 5 anni di università e un corso di specializzazione (della durata di un anno per le medie e superiori) per il sostegno. L’insegnante che deciderà di intraprendere questa carriera non potrà richiedere il passaggio di cattedra su posto disciplinare prima di un certo periodo di tempo, 10 anni in caso di contratto indeterminato, la durata del grado scolastico frequentato dall’alunno con disabilità certificata in caso di contratto a tempo. L’obiettivo consiste nel garantire una vera professionalità nelle didattiche speciali e nelle strategie inclusive e una continuità didattica a questi studenti, oggi abbandonati in tutta fretta, a detta del sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone, per conquistare la cattedra di docente curriculare.
La formazione, però, non riguarderà più solo i docenti di sostegno, ma l’intero organico scolastico. Nelle classi in cui saranno iscritti alunni con disabilità, tutti gli insegnanti dovranno redigere per ogni studente un piano di studi personalizzato e per farlo dovranno partecipare ad attività formative svolte dall’università, da centri di ricerca o da esperti del settore. In aggiunta, dovranno partecipare ad almeno un corso di formazione sugli aspetti della didattica dell’inclusione scolastica non inferiore a 20 ore.
Il messaggio che questa nuova proposta di legge vuole lanciare è “un diritto allo studio uguale per tutti”: maestri, professori e insegnanti a contatto con alunni disabili devono essere in grado di rispondere alle esigenze di ognuno, integrandoli nella classe e facendoli partecipare attivamente a tutte le attività scolastiche.
L’altra faccia del decreto
Fin qui, nulla di anomalo. Ma la domanda sorge spontanea: cosa si intende per formazione? Non si tratta, come ci si aspetterebbe, di una preparazione sui diversi metodi di insegnamento, sugli strumenti e sulle modalità di comunicazione verso alunni con disabilità intellettive o motorie, ma di una specializzazione sulla singola patologia. Insegnanti che diventano medici e che, tra le altre cose, avranno anche l’obbligo di somministrare i farmaci ai loro pazienti. Questa è l’accusa degli insegnanti di sostegno italiani che vedono in questa specializzazione e nella separazione delle carriere (per cui si può scegliere o il sostegno o la cattedra curriculare) il fallimento dell’inclusione scolastica promessa e tanto esaltata dalla riforma della scuola renziana.
La critica di Faraone di utilizzare il sostegno come trampolino di lancio per la cattedra disciplinare non è andata giù a molti, che sostengono, infatti, come un insegnante, con anni di esperienza nel sostegno di studenti “speciali” alle spalle, sia ancora più qualificati ad insegnare in una classe. Soprattutto se in quella classe ci sono bambini DSA e BES, che non hanno più diritto all’affiancamento di un insegnante di sostegno e che, per aiutarli, oggi vengono iscritti nelle classi dove sono presenti compagni disabili.