Mentre il caldo afoso dell’estate lascia piano piano spazio a una leggera brezza autunnale, da radio e televisioni alcune pubblicità usano il pretesto temporale delle Paralimpiadi di Parigi 2024 (qui la guida completa) per vendere i propri prodotti e servizi. Alcune di esse però le chiamano Paraolimpiadi, un termine che ormai è vetusto, inutilizzabile e stantio. La stessa Accademia della Crusca spiega che si tratta di un termine molto raro.
Questo esempio ci aiuta a capire che il linguaggio e la comunicazione sono fondamentali in qualsiasi contesto, a maggior ragione quando parliamo di persone. I Giochi paralimpici francesi saranno un banco di prova centrale per come i media racconteranno l’evento: non parliamo solo di pubblicità, ma soprattutto degli organi di informazione, chiamati al delicato ruolo di aprire le porte del mondo paralimpico a chi ancora non si è avvicinato. Ci proviamo tutti, da anni, e qualche risultato è stato ottenuto, come l’aumento degli spettatori a questo evento internazionale.
Ora però serve fare un nuovo passo in avanti, un avanzamento culturale. Perché se da una parte è vero che edizione dopo edizione l’attenzione mediatica nei confronti di questa manifestazione sportiva è aumentata, c’è anche da sottolineare che ancora oggi si usano linguaggi impropri, e spesso non viene risaltato l’atleta in quanto tale, ma semplicemente la sua disabilità e la storia personale che lo accompagna. Tutto ciò è ormai pedante, segno di una comunicazione dilettantistica che non vuole evolvere. Eppure c’è ancora speranza.
Quali linguaggio dovrebbero adottare i media alle Paralimpiadi di Parigi 2024?
Al centro della questione mettiamo una parola: abilismo, un paradigma culturale simile al razzismo e al sessismo che, in questo caso, discrimina le persone con disabilità. In sostanza, esistono convenzioni sociali e culturali accettate dalla comunità che portano alla ghettizzazione o all’esclusione di alcune persone dalla società in virtù della loro condizione di disabilità.
E ciò, purtroppo, accade anche attraverso la comunicazione e il linguaggio. Volente o nolente, siamo soliti assistere a strategie di comunicazione che difficilmente parlano di sport degli atleti paralimpici come tali. Basti pensare a tutte le vittorie europee e mondiali del Nuoto paralimpico che hanno fatto fatica a trovare notizia nei quotidiani sportivi più blasonati.
In occasione delle Paralimpiadi, questo ostruzionismo informativo cessa di esistere: i Giochi diventano la notizia del giorno, anche se non sempre per meriti sportivi (si veda il caso di Valentina Petrillo). A dominare però restano la comunicazione e il linguaggio, cioè il modo in cui gli operatori dell’informazione raccontano le gare paralimpiche: qui c’è ancora molto da fare.
Ogni edizione dei Giochi è stata contraddistinta da una precisa caratteristica comunicativa: raccontare la storia dell’atleta paralimpico per farla empatizzare il pubblico. Forse questo approccio culturale-comunicativo poteva funzionare 20/30 anni fa, ma oggi il contesto è visibilmente cambiato – o quanto meno chiede a gran voce un cambiamento di percezione umana, morale ed etica.
Oggi non c’è più l’handicappato, ma la persona con disabilità; oggi non c’è più il poveretto che ritrova la gioia di vivere grazie a una medaglia d’oro, ma abbiamo atleti professionisti. Abbiamo le persone prima della disabilità. Abbiamo gli atleti prima di ogni altro dettaglio.
E questo concetto, che ad alcuni sembrerà banale, può trovare radici forti e vigorose solamente se la comunicazione sportiva delle Paralimpiadi cambia passo: va bene raccontare la biografia di un atleta, ma senza aggiungere troppo pathos su questioni relative a incidenti, malattie e disabilità, senza rimarcare certi dettagli come fossero le informazioni più importanti da raccontare ai Giochi paralimpici.
I media dovrebbero concentrarsi sui tecnicismi sportivi, sul peso di un risultato per un atleta, sui tempi di gioco, sulle statistiche nel breve e nel lungo periodo. Senza di questi, si crea un problema comunicativo sportivo veramente forte, che può avere conseguenze negative su come gli atleti paralimpici vengono percepiti dalla società, dal pubblico e dalle persone.
Qualche anno fa la campionessa di atletica paralimpica nella categoria T63, Martina Caironi, aveva espresso questo concetto ad Ability Channel in maniera cristallina: “Un errore che ancora alcuni fanno è quello di metterci dentro lo stesso pentolone e dire che siamo bravi. Questa è una roba che ci fa arrabbiare tantissimo, perché è troppo facile, troppo limitativo dire: ‘Bravi, avete fatto un’ottima gara’. Senza invece sapere di che categoria sono gli atleti. Perché ha fatto un’ottima gara? Cioè, se il mio risultato è valido realmente, oppure se secondo te sono bravo solo perché ho fatto sport con una disabilità. Non si può più fare questo tipo di ragionamento”.
Insomma, cosa manca? Più approfondimento, più conoscenza sportiva, più persone preparare sulle Paralimpiadi, sugli atleti paralimpici e sul movimento paralimpico tra i professionisti della comunicazione. Ciò che ci si aspetta da una telecronaca paralimpica non è semplicemente un’esaltazione pietistica e supereroistica dell’atleta – come se non ci pensasse già in maniera indegna la società -, ma analisi sportiva, commenti e critiche nei confronti della prestazione di un atleta, disamine taglienti sui risultati positivi o negativi ottenuti in una particolare disciplina sportiva.
Oggi serve cambiare rotta, e puntare sul raccontare lo sport per quello che è: tecnica, regole, risultati, allenamenti. Per fare un esempio, ancora oggi si sente veramente poco parlare delle classificazioni funzionali, che nella fattispecie sono fondamentali nel percorso di un atleta paralimpico. Sarebbe auspicabile ascoltare una diretta sportiva in cui il commentatore di turno spieghi cosa sono, qual è il loro ruolo nei Giochi, perché c’è chi le critica, come mai tendono a cambiare nel corso degli anni oppure cosa indica ogni specifica categoria.
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Cosa ne pensano gli atleti sul ruolo dei media alle Paralimpiadi di Parigi 2024
Fin qui abbiamo dato adito alle nostre opinioni, ma cosa ne pensano gli stessi atleti? In un nostro podcast abbiamo messo insieme le Olimpiadi e le Paralimpiadi proprio per approfondire la questione, insieme rispettivamente a Filippo Tortu e Martina Caironi.
Durante la chiacchierata, Caironi ha sottolineato una questione fondamentale e imprescindibile: “È importante raccontare la storia dell’atleta, però attenzione, è importante anche spiegare il gesto tecnico, il risultato, quanto vale, e non metterci tutti nel calderone ‘Ah sì, stanno facendo sport e hanno superato la loro disabilità, quindi bravi tutti’. Che da un lato ovviamente ci sta, perché il significato più profondo delle Paralimpiadi è quello di trasmettere motivazione a tutte le persone con disabilità, però quello è sport ad alto livello, quindi merita un racconto più specifico, come viene riservato agli atleti top delle Olimpiadi. Ma in generale per i normodotati è più un’eccezione la storia che ci sta dietro l’atleta, invece per noi è quasi il contrario”.
Tortu condivide questa visione, aggiungendo che atleti olimpici e paralimpici sono legati dalla “stessa gioia nel fare sport, tutte le stesse emozioni che viviamo noi sportivi sono le stesse, che siano paralimpici o olimpici. Poi sono d’accordo che molte volte, nel caso di voi atleti paralimpici, possa stupire più la storia che alla fine il risultato in sé, che io essendo in pista spesso con voi vedo sono cose di alto livello, addirittura ci sono casi in cui atleti paralimpici superano atleti olimpici. Da un lato capisco diciamo la gente normale, ma non vuol dire che condivido: se non fai parte del mondo dello sport, ti colpisce anche a livello empatico e ti porta come esempio, la gente è stupita in positivo dalle vostre storie, quindi magari si sofferma meno sulla prestazione in sé”.
Tutto ciò a scapito della prestazione sportiva che durante le Paralimpiadi di Parigi 2024 dovrà essere al centro della narrazione in ogni singolo momento, per ogni singolo atleta, alla fine di ogni gara. O almeno è ciò che auspichiamo, perché la comunicazione può cambiare la società dalle fondamenta.
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