C’era una volta un popolo fiero ed orgoglioso, guidato da capi leggendari e coraggiosi guerrieri, che non conosceva la parola disabilità: gli indiani d’America. Lo potremmo definire come il popolo senza barriere il cui linguaggio non comprendeva la parola disabilità né aveva termini che potevano in qualche modo avvicinarcisi.
Gli indiani d’America sono stati vittime di un genocidio che ha distrutto anche culture e tradizioni millenarie. Una storia tragica, troppo spesso dimenticata, che ha costretto le tribù superstiti a chiudersi in un isolamento che ha reso particolarmente difficile la conoscenza e l’approfondimento della loro cultura. Comunque da quanto è emerso da studi relativamente recenti, la mancanza del concetto di disabilità sarebbe dovuta al collegamento tra il regno spirituale e la medicina tribale che è focalizzata soprattutto sul mantenimento dell’equilibrio tra corpo, spirito e mente. Il benessere è definito come una “totalità dell’esistenza“, dove ogni aspetto della realtà di un individuo è interconnesso e intrecciato con la natura, la comunità e gli spiriti. Gli indiani consideravano la natura come un fenomeno in costante mutamento: la disabilità era quindi solo un momento dell’esistenza, non un elemento definitivo.
Gli indiani erano convinti che la realtà fosse inerentemente caotica e che la vera salute risiedesse nel trovare equilibrio nel caos. La verità non era considerata un punto fisso, ma piuttosto un punto di equilibrio sempre in evoluzione, creato perpetuo e perpetuamente nuovo. Queste credenze chiaramente negano l’esistenza di una singola prospettiva o interpretazione. Una persona “diversa”, anche se con evidenti disfunzioni fisiche o mentali, era solamente la conseguenza di una disarmonia con lo spirito. Quando si riusciva a ristabilire la giusta armonia per mezzo di pratiche religiose e cerimonie tribali tradizionali la persona veniva considerata curata.
C’erano delle persone quindi che avevano avuto il “dono” di una realtà diversa” dal resto della tribù. Erano chiamati Heyoka e avevano ricevuto una quantità indescrivibile di wakan, un potere santo, misterioso o incomprensibile. Erano personaggi sacri, temuti e rispettati. Il termine significava letteralmente clown sacro, ma in realtà era una persona capace di vedere il mondo in modo differente, in maniera opposta al normale. Si diceva che potessero controllare la pioggia, il vento e il tuono; potevano intervenire nella guarigione delle malattie e aiutare nella caccia.
Per raggiungere un diverso livello di coscienza è da sottolineare inoltre quanto fosse largamente praticato (masticato o bevuto come tè) il consumo del peyote, un piccolo cactus da cui si estrae una sostanza allucinogena (mescal) che era in grado sia di eliminare dolori e sofferenze che di far guadagnare l’immortalità.
Gli indiani sapevano esprimersi anche in silenzio, con il solo gesticolare delle mani, riuscendo così a coinvolgere nelle conversazione i sordi e gli anziani. I Navajo, facilitati da una lingua con una cadenza lenta, riuscivano a comprendere un discorso leggendo il labiale del loro interlocutore.
L’autismo non era vissuto come un problema. Uno dei suoi sintomi, la mancanza del contatto visivo con gli occhi, era considerata come il massimo rispetto per gli anziani. Un bambino era autorizzato a fare tutto quello che voleva purché contribuisse in qualche modo alla sua comunità. Non esistendo dei “parametri comportamentali” di riferimento il livello di tolleranza era di conseguenza molto più elevato.
Una lezione alla nostra cultura? Forse sì. Nonostante al giorno d’oggi gli indiani d’America abbiano un tasso di persone disabili molto più alto della media nazionale, sicuramente la loro concezione della disabilità rimane totalmente differente e alternativa, più moderna ed emancipata di quella che abbiamo noi occidentali e che merita di essere ulteriormente esplorata ed approfondita.
Ultima modifica: 17/02/2020