Le Paralimpiadi e le Olimpiadi dovrebbero essere organizzate nelle stesse giornate oppure dovrebbero restare separate? Il dibattito è aperto da anni, e probabilmente non esiste una risposta che possa mettere tutti d’accordo. Resta comunque la storia: nel 2001 il Comitato Internazionale Paralimpico e il Comitato Internazionale Olimpico ratificarono un accordo che obbliga la città che ospita le Olimpiadi ad allestire le Paralimpiadi.
Una scelta atta a mettere nero su bianco un trend iniziato alla fine degli anni Ottanta del 900, reso necessario dall’esigenza di conferire maggiore tutela e salvaguardia all’evento paralimpico, per molti anni ignorato o poco apprezzato dalla popolazione mondiale, ma che oggi invece vive tranquillamente di vita propria.
Esiste comunque un dilemma (etico e morale?) sulla necessità o meno di ripensare al sistema organizzativo dei Giochi. Per alcuni, la gestione attuale viene percepita come ci fosse un dislivello: in base a queste critiche, le Paralimpiadi sono la Serie B delle Olimpiadi. Eppure non sempre è così, è molto dipende (appunto) dalla percezione.
Paralimpiadi e Olimpiadi: separate o insieme?
A livello storico, Paralimpiadi e Olimpiadi non sono sempre andate a braccetto. Dopo le prime edizioni paralimpiche (Roma 1960 e Tokyo 1964), le due manifestazioni sportive hanno avuto città separate.
Le Olimpiadi estive sono andate in scena a Città del Messico 1968, Monaco di Baviera 1972, Montréal 1976, Mosca 1980 e Los Angeles 1984; invece le Paralimpiadi estive furono organizzate nel 1968 a Tel Aviv, nel 1972 a Heidelberg, nel 1976 a Toronto, nel 1980 ad Arnhem e nel 1984 a Stoke Mandeville – New York;
Stesso discorso per le edizioni invernali. Le Olimpiadi hanno avuto Innsbruck 1976, Lake Placid 1980, Sarajevo 1984 e Calgary 1988; invece nelle Paralimpiadi troviamo Ornskoldsvik 1976, Gelio 1980 e Innsbruck 1984 e 1988. I due eventi tornarono uniti dalla stessa città nell’edizione estiva di Seul 1988, mentre ad Albertville 1992 per l’edizione invernale.
Una differenza geografica che, a posteriori, risulta inutile quanto troppo banale. Probabilmente la percezione dell’epoca credeva nelle buone intenzioni di questa strategia, ma oggi risulta futile, con un retrogusto raffermo. Come se le città che ospitavano le Olimpiadi non volessero prendersi la responsabilità di organizzare anche la manifestazione paralimpica. Un approccio culturale decisamente diverso rispetto ai nostri giorni, ma probabilmente è la chiave con la quale osservare questo dibattito.
Lo stesso approccio che, probabilmente, ha portato alla ratificazione di un accordo per permettere alle Olimpiadi e alle Paralimpiadi di essere ospitate nella stessa città: ben 13 anni di attesa, la cui miccia è stata accesa in maniera informale da Seul 1988, capace di creare un nuovo stimolo culturale in grado di determinare la nascita dell’accordo tra IPC e CIO.
Probabilmente questa rivoluzione fu dettata da una maggiore consapevolezza su come all’epoca la società vedesse le persone con disabilità, considerate alla stregua di angeli caduti dal cielo, supereroi della vita o individui sfortunati che dovevano solo rimanere a casa (alle volte colpiti addirittura dal sentimento di vergogna da parte della propria famiglia).
Insomma, l’espressione sociale inficia anche su altre questioni, come l’organizzazione di un evento sportivo. In base a queste considerazioni, risulta antropologicamente scontato che, per un certo periodo di tempo, le due manifestazioni abbiano avuto città separate. Oggi questa strategia è impensabile, e meno male, viene da dire.
Dunque il dibattito moderno si basa molto sulla percezione culturale odierna: se il concetto principale è difendere l’integrazione e l’inclusione, perché le Paralimpiadi vengono messe in scena settimane dopo le Olimpiadi? Perché non realizzare i due eventi nelle stesse giornate?
La critica mossa riguarda sempre la percezione morale ed etica. Avere due momenti distinti tra le due kermesse sportive potrebbe confermare ancora di più che la società vuole dividere due mondi che fanno comunque parte della stessa società: cioè la realtà delle persone con disabilità e la realtà delle persone senza disabilità.
Un concetto alimentato anche dal desiderio da parte di alcuni di vedere atleti olimpici e paralimpici gareggiare insieme, in modo che le stesse Paralimpiadi non vengano considerate come la succursale delle Olimpiadi. Intrigante come proposta, ma prima bisognerebbe superare le controversie e le critiche riguardanti le classificazioni funzionali, e non è l’unico aspetto che a oggi rende necessario separare questi due spettacoli.
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Paralimpiadi e Olimpiadi: meglio separate?
Come al solito, tutto si basa sulla percezione dei tempi che viviamo. Ad esempio, ieri le persone con disabilità erano una vergogna da chiudere in casa, oggi invece la persona disabile non viene nascosta (sebbene esistano sempre grossi problemi nel rispetto dei diritti umani, e non solo).
Attualmente le Paralimpiadi rappresentano un simbolo, alimentate dal concetto chiave dello sport che punta a superare discriminazione, pietismo e super eroismo. Altresì, i Giochi paralimpici dimostrano quant’è fallata l’idea secondo cui una persona con disabilità possa solo restare a casa, accontentandosi di ciò che possiede, senza desiderare altro. Tutto ciò, in realtà, senza nemmeno chiedere alla persona con disabilità se ha bisogno di qualcosa in quanto individuo: ciò porta a non ascoltare i diretti interessati, che spesso si trovano ad avere addosso etichette appiccicate da altri.
La separazione tra Paralimpiadi e Olimpiadi è funzionale in virtù di questi scopi: avere un momento che sia solamente degli atleti dei Giochi paralimpici. Perché, appunto, spesso alle persone con disabilità non viene dato un palcoscenico sopra il quale parlare, ma vengono nascoste dietro a concetti stereotipati di varia natura, talvolta quotidiani, che non vanno al di là del mero assistenzialismo: ovviamente è necessario parlarne perché, in alcuni casi, l’assistenza è un’arma fondamentale per la propria vita, ma paesi come l’Italia hanno spesso dimostrato di non ascoltare le necessità specifiche delle persone coinvolte (altrimenti lo scenario sociale sarebbe oggettivamente più equo).
Così le Paralimpiadi diventano un’occasione di rivoluzione culturale: avere un appuntamento fisso, unicamente dedicato agli atleti paralimpici, risulta un’opportunità per avere voce, per gridare al mondo intero la propria esistenza in quanto atleta e individuo sociale. Gli stessi media si devono (o almeno dovrebbero) comportare di conseguenza: la notizia sportiva del giorno riguarda le Paralimpiadi, non c’è nulla di più importante. Inoltre ciò permette al pubblico di avvicinarsi a un mondo che prima vedeva con occhi velati dagli stereotipi.
Così il dibattito della separazione tra Paralimpiadi e Olimpiadi resta alimentato unicamente da un fattore: l’ordine di apparizione tra le due manifestazioni. In questo caso, la critica potrebbe riguardare la percezione che le persone hanno a fronte della successione degli eventi, che potrebbe alimentare l’idea che le Paralimpiadi siano un appuntamento sportivo di Serie B.
A questo punto la domanda è lecita: perché non anticipare le Paralimpiadi di qualche settimana rispetto alle Olimpiadi? Ipotesi intrigante, ma tutto dipende sempre dalla percezione, poiché anche questa scelta verrebbe criticata apertamente: probabilmente si punterebbe il dito asserendo che così i Giochi paralimpici diventerebbero un antipasto di quelli olimpici. L’attuale successione di eventi invece ha permesso al team marketing delle Paralimpiadi di sfruttare il concetto secondo cui il meglio deve ancora venire, e le Paralimpiadi di Londra 2012 ne sono state la prova effettiva.
Proviamo allora a ipotizzare l’organizzazione di queste due kermesse negli stessi giorni: non sarebbe per nulla semplice garantire a tutti gli atleti di disputare le proprie gare negli stadi d’eccellenza, le televisioni non riuscirebbero a seguire ogni singolo evento, probabilmente ci sarebbe una sovrapposizione intensa delle gare. Per non parlare degli sforzi lavorativi ed economici richiesti, non semplici da gestire.
Insomma, a livello pratico diventerebbe una macchina molto complessa da condurre, anche perché il flusso di pubblico, partecipanti e addetti ai lavori sarebbe molto più intenso, con il rischio di ingolfare l’evento stesso. Inoltre gestire potenziali criticità in questa situazione rischia di diventare difficoltoso, tanto da esporre la città e le persone a pericoli che si potrebbero benissimo evitare.
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Cosa ne pensano Martina Caironi e Filippo Tortu sulla separazione tra Paralimpiadi e Olimpiadi
Finora abbiamo disquisito filosoficamente su quale potrebbe essere la strategia migliore, ma cosa ne pensano gli atleti? In una puntata del nostro podcast abbiamo messo a confronto Paralimpiadi e Olimpiadi con due rappresentanti dell’atletica, rispettivamente Martina Caironi e Filippo Tortu.
Secondo Tortu, la separazione tra i due eventi è un valore aggiunto: “È giusto che ognuno abbia il proprio palcoscenico, le proprie gare e sia un giusto confrontarsi in quel momento con chi parte dal tuo stesso livello. Questo penso sia una cosa che lo sport ti insegna, a non vedere le differenze, anche se ci sono, e anche a valorizzare diversi percorsi, diversi modi di correre, di saltare. Perché poi possono presentarsi difficoltà maggiori o anche diverse, per cui è giusto che vengano esaltate allo stesso modo, ma separati”.
Caironi invece propone lo stesso punto di vista, ma partendo da un altro concetto chiave: “Se ci pensate, la Paralimpiade è l’unico evento esposto mediaticamente a livello mondiale dove le star sono persone con disabilità. È qualcosa da non sottovalutare, perché non mi viene in mente nessun altro evento dove questo avvenga. Secondo me potrebbe essere opportuno creare più situazioni a livello internazionale, per esempio nell’atletica leggera, in cui le gare paralimpiche vengano programmate nello stesso luogo e in date adiacenti o addirittura mischiate a quelle dei normodotati”.
Effettivamente Caironi ha ragione da vendere quando afferma una realtà spiazzante: “Quali altri eventi tu vedi pubblicizzati, raccontati, dibattuti, dove al centro c’è l’atleta paralimpico, ovvero persona con disabilità? Nessuno, e questo ha un potere enorme, come lo stesso presidente Luca Pancalli dice sempre: cioè il potere dello sport è anche proprio quello di cambiare la società, di far svegliare anche la gente e risolvere i problemi che vanno oltre allo sport grazie allo sport”.
Dunque Paralimpiadi e Olimpiadi devono rimanere separate, a meno che non vi sia una potenziale evoluzione culturale che ci faccia aprire gli occhi sull’effettiva necessità di mettere insieme questi due eventi. Finora però i Giochi paralimpici hanno dimostrato di avere un potere esclusivo morale, etico, comunicativo, propagandistico e sportivo che nella vita di tutti i giorni non è possibile avere se non rimanendo separati dai Giochi olimpici.
Gli atleti paralimpici hanno finalmente un loro palcoscenico e un loro microfono dove affermare la propria identità al mondo in quanto atleti professionisti e individui sociali. E probabilmente è un funzionamento che le società moderne dovrebbero omologare e sviluppare al loro interno. Anche noi, in quanti individui che commentano, dibattono e criticano, dovremmo riconoscere più spesso il valore di avere un palcoscenico tutto per sé.
Probabilmente, alla fine della fiera, siamo tutti fallati dall’idea che l’inclusione e l’integrazione passino dall’accettare la diversità in una comunità, quando la diversità è essa stessa comunità. E in un mondo ideale, ognuno può avere un proprio palcoscenico, ma non per via di un’etichetta, bensì per avere la possibilità di urlare su un palcoscenico il proprio valore – nel caso delle Paralimpiadi in qualità di atleti professionisti.
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