Di solito quando scrivo o partecipo ad eventi per parlare di disabilità o malattie rare lo faccio in una veste del tutto positiva, perché da anni promuovo quello che è il concetto di disabilità positiva, nel quale credo molto.
Nel mio percorso di crescita da malata rara, ho imparato a lamentarmi poco degli aspetti negativi dell’essere o del sentirsi appunto rari. Ho imparato infatti a trasformare, il sentirsi diversi in sentirsi normali, il dolore in sopportazione, l’etichetta rara in speciale, ma a volte la nostra buona volontà, la nostra positività nell’affrontare quanto di più difficile la vita ti presenta non basta a non essere davvero quello che si è: Rari.
Oggi scrivo non solo in qualità di professionista e collaboratrice del progetto Ability Channel e malata rara ma scrivo in qualità di malata rara, mamma. La parola “malata rara” può spaventare, spaventava anche me quando non sapevo di esserlo, o quando appena saputo non sapevo come affrontarlo e viverlo. Ma la parola mamma, forse a oggi, mi spaventa di più.
Essere madre non significa soltanto generare una nuova vita, ma essere colei che accompagna il bambino nel mondo e che gli rimanda il primo sguardo su di sé, importante nella costruzione del proprio senso di identità. La madre è colei che sa rendere e fa sentire ogni figlio unico e insostituibile. Essere madre è essere responsabili della vita di un altro essere umano. Essere madre è educare i figli al concetto di disabilità, che non è assolutamente quello di diversità e per farlo bisogna in primis sentirsi uguali al resto del mondo.
Oggi scrivo perché, per la prima volta in nove mesi di gravidanza, essere malata rara mi ha fatto sentire un pesce fuor d’acqua. Nonostante le mie problematiche di salute legate all’Acalasia Esofagea e al mio pregresso Carcinoma, ho avuto la fortuna di vivere una gravidanza piuttosto tranquilla. Fino a qualche giorno fa, quando mi sono sentita per la prima volta una malata rara incinta.
La mia Acalasia ovviamente, come ogni gesto o respiro della mia vita negli ultimi 14 anni, si è fatta sentire anche in questi mesi di gravidanza, ma come ho sempre fatto, ho cercato di affrontarla a testa alta sopportando i dolori di angina esofagea che venivano fuori come altre problematiche noiose e poco carine che questa malattia ci lascia anche dopo l’intervento.
Quando avevo dolori o disfunzioni cercavo di parlare con la mia piccola e di renderla già partecipe della mia malattia, le insegnavo già ad essere paziente con me, mi scusavo se stavo male e potevo involontariamente farle risentire il mio malessere, la tranquillizzavo, perché parlare con lei tranquillizzava me e la sopportazione diventava più semplice.
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Purtroppo una diastasi successiva al mio intervento del 2008 ha condizionato i miei ultimi mesi da “panciona”, facendomi assumere a volte posizioni strane per tollerare il dolore e la fuoriuscita che ne conseguiva se solo ero in posizione seduta a mangiare o guidare la macchina. Anche in questo caso in silenzio con pazienza e tolleranza ho affrontato e sto continuando ad affrontare i mesi e le ultime settimane di gravidanza che mi sono rimaste, con la speranza che lo spostamento successivo al parto rimetta un po’ in ordine il mio fisico e renda più gestibile questa diastasi, come lo era prima di questa avventura chiamata gravidanza.
Ma la mia sopportazione non è bastata a sentirmi una mamma normale. Alcuni giorni fa avevo una visita ospedaliera per poter programmare il cesareo, quello che pensavo fosse l’unico modo per partorire mia figlia, in quanto questo dolore diventato un’impossibilità per tante piccole azioni condizionasse il mio quotidiano.
Purtroppo così non è stato e il risultato è stato di nuovo il non sentirsi capiti, sentirsi diversi ma soprattutto sentirsi soli. Questa sensazione i malati rari come me, la vivono generalmente quando non conoscono la loro diagnosi e vagano tra visite, ospedali e medici alla ricerca di qualcuno che fermi la loro giostra e gli dica: tu hai questa malattia.
Dopo questo vagare, dopo questa solitudine si viene a scoprire un nuovo mondo e a capire che la diversità data da una malattia può diventare qualcosa di più produttivo ma soprattutto non solo negativo. È quindi nella fase successiva alla diagnosi che si arriva alla comprensione, dei sintomi, di chi siamo realmente e all’accettazione, accompagnata spesso dalla solidarietà nel ritrovarsi con coloro che come noi hanno la stessa patologia.
Quella di oggi non vuole essere una critica sulla nostra sanità, o sulla professionalità di medici e sanitari, ma semplicemente la testimonianza di una mamma che voleva solo sentirsi una mamma senza l’etichetta di malata rara o la “diversa”.
Dico questo perché nessuno in quella visita ha capito realmente cosa sto vivendo, come lo sto vivendo, ma anzi, come spesso si fa in questi casi, si giustifica una scelta o una preoccupazione con l’essere ansiosi o l’avere paura di affrontare qualcosa che non conosciamo come un parto naturale, certo è che a una come noi parlare di paura fa anche un po’ sorridere, noi paura?
Noi che abbiamo affrontato e accettato cose che non tutti forse avrebbero la forza di accettare, noi che sviluppiamo un senso di sopportazione e soglia del dolore che va oltre a volte alla possibilità di un essere umano – e chiaramente non parlo solo di me ma di tanti con malattie rare anche peggiori della mia che vivono con condizionamenti e dolori sfiancanti.
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No, non ho paura di partorire naturalmente mia figlia, non ho paura di evitarmi un ulteriore intervento, l’ennesima cicatrice sul mio corpo o l’ennesimo decorso post-operatorio, anzi sarei molto felice se come gran parte delle mamme potessi vivere un’emozione unica e irripetibile come la nascita di un figlio naturalmente.
Purtroppo in questa fase non è possibile fare esami diagnostici che certifichino ciò che sento, ma non poterlo mettere nero su bianco non significa che io non abbia nulla o che inventi di avere un problema, messaggio invece passato durante la visita con sguardi che hanno riportato in me il ricordo di non sentirsi una donna ma un’aliena.
Spesso è facile agire così, caricare di ansia il paziente per arrivare a fargli dire qualcosa che non è. D’altronde prima della diagnosi di acalasia questo è già accaduto con medici, purtroppo, che non arrivando all’uva dicevano che era acerba o ancor meglio che non esisteva proprio! Non è stato bello rivivere questo e lo dico in primis da paziente ma anche da sanitaria quale sono, visto che la mia prima premura è sempre di far sentire il paziente a suo agio e soprattutto compreso.
Purtroppo, dicono, è una responsabilità dire “Tu hai un problema e non sei in grado di affrontare un travaglio”, e trovare qualcuno che si prenda certe responsabilità non è semplice, è così che inizia il loop, con frasi del tipo, “Non è mia competenza”, “Non mi prendo la responsabilità”, “È la prima volta che succede”, “Sei un caso particolare”. E’ in questo istante che ti senti sola, abbandonata a te stessa, al tuo problema e non ti senti creduta anzi inizi quasi a pensare che sei pazza.
Nessuno vuole in questo contesto affrontare medicalmente l’argomento, né, ripeto, controbattere a certe decisioni, perché non è ciò che risolve il quesito ovvero come è più giusto affrontare questo parto, ma il modo, la sensibilità, l’approccio che si ha con alcuni pazienti non deve essere quello di farli sentire soli e diversi. Siamo prima essere umani e poi malati rari, prima viene la persona e non l’etichetta.
Vi lascio con una riflessione un po’ datata di Charlie Chaplin, che secondo me si avvicina al concetto di cui vi ho voluto parlare oggi: “Le macchine che danno abbondanza ci hanno lasciati nel bisogno. La nostra sapienza ci ha reso cinici, l’intelligenza duri e spietati. Pensiamo troppo e sentiamo troppo poco. Più che macchine l’uomo ha bisogno di Umanità. Più che intelligenza, abbiamo bisogno di dolcezza e bontà. Senza queste doti la vita sarà violenta e tutto andrà perduto”.
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Ultima modifica: 22/07/2022