Da diversi mesi alcune categorie di lavoratori fragili sono senza tutela e costretti a scegliere se lavorare o curarsi. Ecco le loro storie
Il paradosso dei lavoratori fragili va avanti da quasi un anno, eppure la politica sembra essersi dimenticata di loro. O meglio, di una parte di loro, visto che lo smart-working è stato prorogato, ma per le mansioni incompatibili con il lavoro agile non c’è tutela.
E così, per tanti di loro non resta che scegliere: uno stipendio sicuro, correndo un rischio per la propria salute, oppure curarsi, ma senza uno stipendio che possa garantire l’accesso alle cure. Un circolo vizioso che coinvolge numerosi governi che si sono succeduti durante la pandemia da Covid.
Marzo 2020: la pandemia da Covid costringe l’Italia ad adottare una misura drastica per rallentare i contagio, cioè il lockdown, costringendo a ripensare le modalità di lavoro per diverso tempo.
La prima mossa viene fatta dal Governo Conte II con il decreto legge n.18 del 17 marzo 2020: all’articolo 26, comma 2, con successive modifiche e integrazioni, erano state previste due tutele fondamentali per i lavoratori fragili:
Nel corso degli anni la pandemia è rimasta costante, mentre in Italia si sono succeduti diversi governi. Nel settembre 2022 Draghi ha prorogato lo smartworking con il decreto legge “Aiuti bis” fino al 31 dicembre 2022. Stessa cosa ha fatto Meloni prima con la Legge di Bilancio 2023, prorogando il lavoro agile fino al 30 marzo 2023, e poi con il decreto legge “Milleproroghe“, prorogando il lavoro agile fino al 30 giugno 2023. L’equiparazione dell’assenza da lavoro per malattia a ricovero ospedaliero invece non è stato rinnovato dopo l’ultima scadenza, datata 30 giugno 2022.
Ciò significa che per quei lavoratori fragili con mansioni incompatibili con lo smart-working (cassiere, autista, cameriere, insegnante e via discorrendo) non sono previste tutele specifiche. E ormai è già un anno che i vari governi non sono riusciti a mettere in campo soluzioni alternative.
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Il comporto è un periodo massimo entro il quale viene prevista l’assenza da lavoro per malattia, oltre il quale però può scattare il licenziamento. In linea generale, il tetto massimo di giorni previsti è stabilito dai contratti collettivi di lavoro, e dunque può variare a seconda del mestiere specifico. In assenza di contratto, l’articolo 2110 del codice civile prevede un “periodo fissato dagli usi o secondo equità”.
Insomma, in questo periodo di tempo il lavoratore non può essere licenziato per il perdurare dello stato della malattia, ma ci sono alcune particolarità: non rientrano le assenza per terapie salvavita, il puerperio o le assenza per interruzione di gravidanza. Inoltre non è conteggiabile ai fini dell’anzianità retributiva.
In caso di contratto collettivo nazionale commercio e terziario ad esempio, il comporto può essere di 180 giorni (6 mesi), ma può anche cambiare in base a determinati requisiti e specifiche. Se questo periodo di comporto viene superato, il datore di lavoro può intimare il licenziamento.
Anche nel caso della retribuzione, il discorso varia. Ad esempio, nel pubblico impiego, i periodi di assenza per malattia ha questa quantificazione:
Con la fine dell’equiparazione, da diversi mesi l’assenza da lavoro inficia sul comporto di malattia. Così, in base al proprio contratto di lavoro, un datore di lavoro può decidere di licenziare il proprio dipendente una volta superato il periodo previsto. Dalla scadenza della tutela sono già passati 11 mesi, mentre il comporto può durare in genere 180 giorni: ne consegue dunque il rischio di restare senza lavoro e senza stipendio.
Sempre però che il lavoratore non una mansione compatibile con lo smart-working: in questo caso quindi, si può ricorrere al lavoro agile. Ma questo crea una frattura nella categoria: camerieri, insegnanti, autisti, cassieri e molti altri mestieri incompatibili con lo smartworking sono costretti a fare delle scelte.
Ad Ability Channel un lavoratore fragile, che ha chiesto l’anonimato, ci ha raccontato la sua storia: “Ho aderito alla malattia equiparata al ricovero perché la mia azienda non mi concedeva di lavorare da casa. Purtroppo ho scoperto che era solo una tutela temporanea“.
“A novembre dell’anno scorso – ha continuato la fonte – ho deciso che avevo bisogno dello stipendio e ho interrotto i farmaci che per me sono vitali. Prima nella mia azienda ero responsabile, avevo un ufficio e una scrivania, al ritorno non ho più avuto la scrivania e non ho più avuto un computer, io sono stata invitata a sedermi su una sedia in fondo all’ufficio, come me altre due persone. Questo si chiama mobbing silenzioso perché tu non puoi ribellarti”.
“La mia malattia è degenerativa. Siccome ho firmato con il medico aziendale che io avevo interrotto gli immunosoppressori, altrimenti non mi avrebbe fatto rientrare, io vivo di cortisone. Non vado più a curarmi perché se io vado dal mio specialista, mi dice che sono diventata, oltre che fragile, pazza, ma io non so come spiegare al mio specialista che ho bisogno di soldi per pagare lo specialista“.
Al fine di conoscere lo stato dei lavori su una possibile tutela per i fragili che non posso usufruire dello smart-working, abbiamo contattato il Presidente della XI Commissione Lavoro Pubblico e Privato, Walter Rizzetto (componente della maggioranza, il cui tema sui lavoratori fragili è stato affrontato nel proprio programma elettorale dall’intero centrodestra).
“Capisco la situazione, la stiamo valutando molto da vicino – ha dichiarato il Presidente -. Penso qualcosa si potrà fare cercando di inserire qualche passaggio in pancia ai prossimi provvedimenti. I tempi ritengo e spero possano essere piuttosto brevi. In questo caso non prometto ma cerco di mettere a terra delle proposte. Non mi sento di fare delle promesse, mi sento di impegnarmi”.
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Ultima modifica: 22/05/2023