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“Il Grande Spirito ci ha dato i nostri nemici, noi li distruggeremo…non sappiamo chi siano, potrebbero essere soldati “. Queste furono le parole pronunciate da Toro Seduto, capo degli Hunkpapa Lakota, alle tribù dei Cheyenne, Oglala, Sans Arc e Minneconjou durante una Danza del Sole davanti. Il grande capo, a quel tempo guida politica e spirituale indiscussa della nazione Sioux, aveva avuto una “rivelazione”, aveva visto i soldati piovere dal cielo come cavallette sull’accampamento indiano. Sembrava la premonizione della battaglia di Little Bighorn che sarebbe avvenuta di lì a breve.
Nel 1875 si stava creando una grande alleanza tra le tribù indiane, caldeggiata fortemente da Toro Seduto, per fronteggiare il tentativo del governo degli Stati Uniti di acquisire le terre sacre dei Sioux, le Black Hills. L’anno prima infatti era stato scoperto l’oro e numerosi cercatori avevano cominciato ad entrare in queste zone illegalmente provocando la reazione dei pellerossa.
Il periodo di relativa tranquilità e pace seguito al trattato di Fort Laramie del 1868, in cui i Sioux accettarono di trasferirsi all’interno delle riserve loro assegnate, sembrava ormai un pallido ricordo.
Scaduto il 1 gennaio l’ultimatum posto dal governo, all’inizio del 1876 l’esercito americano iniziò a cercare tutti gli indiani che erano fuoriusciti dalla loro riserva per difendere le Black Hills. Toro Seduto comprese il pericolo e si attivò per radunare in un unico grande campo tutte le tribù sparse sul territorio. Sorse così sul Little Bighorn, un fiume che attraversava le terre del Wyoming e del Montana, una comunità di oltre 10.000 persone principalmente Lakota Sioux, Cheyenne ed Arapaho.
Si racconta che una settimana prima della battaglia del Little Bighorn Toro Seduto avesse eseguito una memorabile Danza del Sole in cui si era tagliato per un centinaio di volte pezzi di pelle dalle braccia come sacrificio offerto al Grande Spirito.
Era l’alba di domenica del 25 giugno 1876. Nel campo di Toro Seduto alcuni uomini e ragazzi portavano i cavalli a pascolare, altri nuotavano nel fiume; gli anziani erano ancora riuniti in una grande tenda; le donne spegnevano i fuochi che avevano accompagnato le danze della notte precedente. Sembrava un giorno tranquillo, nessuno avrebbe mai immaginato l’inferno che si sarebbe scatenato da lì a poco.
Il primo pomeriggio l’esercito americano era stato avvistato, con non poca sorpresa, a poche miglia dal villaggio. Cavallo Pazzo stava nuotando nel fiume insieme al suo amico Naso Giallo quando sentì i primi spari. Chiamò subito un wicasa wakan (l’uomo della medicina) per invocare gli spiriti; si vestì lentamente e si dipinse il volto per prepararsi alla battaglia, mentre i suoi guerrieri impazienti lo aspettavano.
Al comando del 7° Cavalleggeri dell’esercito americano c’era il Generale George Armstrong Custer, eroe della guerra civile, ufficiale impetuoso e indisciplinato; ignaro della forza del nemico divise frettolosamente il suo reggimento in quattro colonne per tentare di accerchiare i Sioux: la sua con cinque squadroni (211 uomini), quelle agli ordini degli ufficiali Benteen e Reno con tre squadroni ciascuno (115 e 141 uomini rispettivamente), e l’ultima, quella di McDougall, con 128 uomini per scortare i rifornimenti.
Mentre Custer e Benteen proseguivano nell’aggiramento del villaggio fu Reno il primo ad aprire il fuoco ma gli indiani, invece di fuggire, contrattaccarono in forze costringendo i soldati ad una precipitosa ritirata.
Custer arrivò nei pressi del campo Sioux alle 4.15 del pomeriggio: quando si rese conto di aver fatto male i suoi calcoli ormai era troppo tardi. La sua carica fallì e fu costretto a ritirarsi su un’altura dove venne a sua volta accerchiato dai guerrieri di Cavallo Pazzo che nel frattempo avevano messo in fuga lo squadrone di Reno che era riuscito a ricongiungersi alle truppe di Benteen.
Privi di protezione i soldati cercarono di serrare i ranghi facendosi scudo dei cavalli nel disperato tentativo di resistere, ma si resero conto di non avere alcuna via di scampo. Nel giro di poco più di un’ora con tre pesanti cariche successive gli indiani annientarono Custer ed i suoi uomini.
Alla fine della battaglia l’esercito aveva perso complessivamente 268 soldati. L’unico superstite tra gli uomini di Custer fu il trombettiere, John Martin, di origine italiana, che era stato inviato a chiedere rinforzi prima che l’intera colonna fosse decimata.
La sconfitta provocò una pesante reazione da parte dell’esercito americano che intensificò i suoi sforzi per riportare l’ordine e ricondurre i Lakota Sioux nelle riserve dove fu proclamata la legge marziale.
Toro Seduto, che in passato si era sempre distinto per la sua intraprendenza e il suo coraggio, non partecipò ai combattimenti ma agì solo come guida spirituale. Alcuni mesi dopo la battaglia si rifugiò in Canada dove continuò a vivere libero per diversi anni prima di rientrare negli Stati Uniti ed arrendersi all’esercito. Cavallo Pazzo invece, rimase sulle montagne del Bighorn prima di lasciarsi convincersi ad arrendersi: fu attirato con un tranello a Fort Robinson dove venne ucciso con un colpo di baionetta da una sentinella.
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