Giulio Maria Papi, giocatore romano di basket in carrozzina ora in forza alla Briantea84 si racconta in questa intervista esclusiva
Il mio nome
“I miei genitori, nel momento in cui dovevo nascere, era una gravidanza a rischio, i miei genitori essendo devoti, essendo alla fine andato tutto bene, hanno attribuito questo secondo nome Maria – racconta Giulio Maria Papi – mentre Giulio lo hanno deciso i miei fratelli, mia sorella che ha dieci anni più di me e mio fratello che ne ha tredici e che in quel periodo stava studiando l’epoca romana a scuola, hanno detto: chiamiamolo Giulio! Da lì in poi Giulio Maria e…Papi è il cognome di Papà!”
La malattia di Giulio Maria Papi
“Ho avuto un osteosarcoma, lo stesso che ha colpito Simone De Maggi, solo che in parti diverse, femore, ginocchio e un pezzo della tibia e poi a distanza di anni ho avuto tre operazioni polmonari… Adesso ho un record storico, sono tre anni che è tutto ok e speriamo di andare avanti il più possibile…Il tumore mi ha colpito a 15 anni e ho avuto tutta una serie di vicissitudini cliniche, percorsi clinici, riabilitativi, interventi…un anno e mezzo pieno in cui il tempo era la cosa più difficile da sconfiggere perché non passava mai ma grazie ai miei genitori, alla mia famiglia, ai miei amici…tante e tante persone che mi sono state vicino e tuttora lo fanno seguendomi anche qui nelle partite che gioco, andando anche all’estero…mi hanno aiutato a far passare questa malattia, a sconfiggere il tempo, e oggi essere qui, essere questa persona…”
Il valore della sofferenza
“Anche nella sofferenza – prosegue Giulio Maria papi – nel modo di affrontare le cose si può trovare un lato positivo perché c’è sempre un lato positivo…quindi soffrire a volte è necessario, serve perché non si riuscirebbe a crescere senza sofferenza, senza provare qualcosa che ci faccia capire che persona siamo…cosa vogliamo diventare o cosa non vogliamo diventare…Secondo me la sofferenza è una fase del processo di vita che va affrontata, si cerca di superarla e se ne parla…”
“Quello che ci dicevano i medici non era il più roseo, mi davano mesi, ma questo i miei genitori non me lo hanno mai detto chiaramente, però l’unica cosa che sapevo…a chiunque veniva a trovarmi dicevo: ragazzi tranquilli, io guarisco!”
Il basket in carrozzina
“Il basket nasce per caso – sottolinea Giulio Maria Papi – stavamo guardando le olimpiadi di Londra, non conoscevo gli sport paralimpici, nessuno mi era mai venuto a parlare circa l’esistenza di questi sport, non avevo avuto mai nessun atleta che fosse venuto alle scuole medie o superiori a parlarne quindi ero completamente allo scuro. Poi un giorno Simone, il compagno di mia sorella, che si chiama come mio fratello, eravamo al mare, si mette a cercare questi sport paralimpici, il tennistavolo, l’atletica e poi il basket in carrozzina… Posso tornare a fare sport? Ma che bella cosa…informiamoci per vedere se a Roma c’è una squadra, una società…a Roma esiste una società molto blasonata che è il Santa Lucia sport Roma e da li ho iniziato a muovere le mie prime spinte, le mie prime ruote sul parquet, nella giovanile, dove c’è stata la chiamata del coach Carlo Di Giusto, che adesso è allenatore della nazionale, per esplorare la serie A e vedere se ero fatto per giocarci…”
L’esordio mondiale
“La partita, è stata una gran partita, era la prima del mondiale, un pò di tensione, un pò di voglia di dimostrare c’era, non è stata una partita dove abbiamo tanto sofferto il pressing, ci siamo un pò ingarbugliati tra di noi, un pò perché non eravamo abituati e un pò perché il pressing, come muovono le carrozzine i giapponesi…sono veramente molto bravi, molto forti, ma dalle partite successive, qualunque squadra ci abbia fatto pressing siamo riusciti a trovare dei modi per uscirne e quindi quella partita ci è servita per imparare una cosa nuova…noi possiamo allenarci quanto vogliamo ma poi è il campo che da la risposta, quello che ci fa imparare la lezione o più dura o più bella. Loro muovevano le carrozzine, ci impedivano alcuni movimenti, cercavamo di fare altro, il coach ci dava le indicazioni poi…si vince e si perde, questo è il bello dello sport…”
“Poi ci sono state altre belle partite giocate e vinte, diciamo che è stato un buon mondiale a livello di gruppo, siamo veramente un gruppo giovane e possiamo far bene”.
“Il bello dello sport quando perdi secondo me è dare qualcosa di più, nel momento in cui perdi ti rendi conto che quello che stai facendo non è abbastanza o non è servito, quindi devi dare qualcosa di più. Dentro di me scatta questa voglia…non sono riuscito a fare quel tipo di movimento adesso devo allenarmi perché se la partita dopo mi impediscono di fare quella cosa ora devo riuscirci!”
L’amore e il futuro
“Esiste qualcos’altro…esiste la ragazza…diciamo che ho proprio sbarellato, ho perso la lucidità, la conoscenza…sono stato proprio felice…il modo di rapportarsi, di parlare, di pensare, c’è stata sintonia e così piano piano l’abbiamo coltivata…”
“Diciamo che più che altro vado io a seguirla perché la domenica anche lei gioca a basket, il sabato la lascio sola, però per fortuna viene qua, c’è un bello spettacolo, una bella tradizione di pubblico quindi viene qui a fare il tifo e molte volte scalpita lei per sapere quando inizia il campionato…”
“Un domani che sarò? Mi piacerebbe finire il corso di studi, mi piacerebbe finire il corso da tecnico ortopedico all’università per poi magari fare le carrozzine o a prendere le misure. Non nascondo che anche la via dell’allenatore sarebbe interessante – conclude Giulio Maria Papi – del secondo allenatore, tipo scout, o allenare come funziona nel basket in piedi, occuparmi di una parte specifica del gioco, dei fondamentali, del palleggio, del tiro, per rendere il nostro sport sempre più professionale, professionistico anzi…”