Hijab calpestati o addirittura bruciati. Quanto sta accadendo in Iran è strettamente collegato all’obbligatorietà locale di uno dei veli islamici nel dress code di una donna, indumento al centro della tragica scomparsa di Mahsa Amini, la cui morte è piena di circostanze ancora da chiarire.
Nel frattempo però a Teheran e in altre città iraniane numerosi manifestanti – guidati proprio da movimenti femminili – hanno sollevato il proprio grido contro il regime degli ayatollah, responsabili di una legge che obbliga le donne a portare lo hijab sempre e comunque, una normativa che recentemente è stata addirittura inasprita. Ma quanto ne sappiamo su questo velo?
Cosa sono gli hijab?
Innanzitutto vale la pena sottolineare che lo hijab non è il velo islamico, ma è uno dei tanti veli che gli occidentali hanno difficoltà a differenziare. Gli hijab sono composti da una cuffia che raccoglie i capelli, tenendoli stretti, e un velo che può essere legato al collo o al mento, oppure lasciato libero sul corpo.
Il significato stesso del termine ricorda molto il modo in cui viene indossato: “rendere invisibile, nascondere“, ed è anche citato nel Corano, indicando la difesa della privacy. Si tratta di un velo molto diffuso, visto che spesso lo possiamo notare anche nei paesi europei, dove la parola “hijab” viene usata per indicare qualsiasi velo islamico.
In realtà però esistono diverse tipologie di veli. Uno dei più noti è il burqa, che ricopre interamente la donna ed è diffuso principalmente in Afghanistan, e nel Corano ne viene menzionata l’obbligatorietà. Diverso invece è il niquab, molto simile al burqa, ma che lascia libera una fessura rettangolare per gli occhi: è tipico principalmente in Arabia Saudita.
Esistono però anche altri indumenti, forse meno noti, da tenere in considerazione. Ad esempio c’è il chador, tessuti che vengono indossati dalla testa come fossero delle mantelline. Poi c’è lo jilbab, anch’esso citato nel Corano per riferirsi all’atto di coprirsi, una tunica presente nel Nord Africa e nella Penisola araba.
Altri veli da menzionare sono lo abaya, tipologia di abbigliamento caratterizzata da abiti larghi che lasciano scoperti solo volto, mani e piedi, l’al-amiri, cuffia stretta e aderente unita a uno scialle da indossare attorno la testa, lo shayla, lunga sciarpa rettangolare da mettere attorno al capo, e il khimar (anch’esso presente nel Corano), velo che ricopre la donna dalla testa fino al girovita.
Gli hijab nel mondo
In Iran vige l’obbligo dello hijab, così come in Arabia Saudita, in Pakistan e in Afghanistan. Tuttavia alcuni paesi nel mondo hanno preso posizioni dure nei confronti dei vari veli presentanti finora. Per fare un esempio, l’Austria (nel 2017) e la Danimarca (nel 2018) hanno bandito il velo integrale, mentre il Belgio (dal 2010), la Francia (dal 2010) e la Bulgaria (dal 2016) vietano di indossarlo in pubblico.
Leggi anche: Perché le donne in Iran si tagliano i capelli come segno di protesta?
Storia dello Hijab
Contrariamente a quanto si possa pensare, nell’epoca pre-moderna lo hijab in Iran era addirittura vietato. Nel 1936 infatti l’allora regime dello scià Reza Pahlavi aveva emanato un decreto (Kashf-e hijab) che vietava alle donne di indossare il velo e agli uomini imponeva di vestirsi con abiti più occidentali. Per far rispettare questa normativa però, spesso le donne che portavano il velo venivano malmenate.
Cinque anni dopo Reza fu costretto ad abdicare, e gli subentrò il figlio, Mohammad Reza Pahlavi, che eliminò il decreto del padre, lasciando piena libertà di scelta a chiunque per vestirsi come desiderato. Tuttavia le donne con il velo venivano comunque discriminate, e la libertà di espressione non era certo difesa: chi lo indossava infatti poteva anche essere esclusa dagli incarichi pubblici.
Insomma, all’interno di questo regime il velo iniziò a diventare un vero e proprio simbolo politico, in questo caso contro il regime degli scià che voleva a tutti i costi imporre velatamente un dress code o un codice di abbigliamento più moderno e occidentale. Già qui capiamo che le prime lotte delle donne non sono sul velo in sé, quanto contro il fatto che uno Stato debba decidere come i propri cittadini devono vestirsi.
Un’ingerenza che verrà fuori anche con gli ayatollah, che subentrarono agli scià con la Rivoluzione Islamica del 1979. All’epoca, gli ayatollah si presentavano come un moto rivoluzionario contrario al governo autoritario in carica, prettamente anti-occidentale, che raccolse svariati consensi, tanto che costrinsero gli scià a fuggire dal paese per essere sostituiti dalla Guida suprema, lo ayatollah Ruhollah Khomeini.
Leggi anche: In Iran le persone disabili vengono discriminate o tutelate?
Così iniziò il rigido regime teocratico, che oggi in Iran viene apertamente contestato proprio per la questione dell’hijab. Tale velo infatti divenne obbligatorio nel regime a partire dal 1981, affermando ancora di più le ingerenze di un regime sul corpo delle donne, le quali avevano già risposto a questa politica con la famosa marcia dell’8 marzo 1979.
Questi elementi confermano comunque che la lotta agli ayatollah è principalmente politica e sociale, e non religiosa, visto che i movimento femminili combattono per la libertà di scelta: cioè, dare a tutte le donne la possibilità di scegliere se indossare o meno il velo, senza alcuna discriminazione.
Eppure gli ayatollah hanno inasprito ancora di più le pene per chi non indossa lo hijab. Basti pensare che la normativa locale punisce chi trasgredisce addirittura con una pena detentiva dai 10 giorni ai 2 mesi. Inoltre, come dimostrano le recenti manifestazioni, sappiamo che le forze locali arrivano ad adoperare anche la violenza per far rispettare questa legge restrittiva, creando anche vicende come quella di Mahsa Amini.
Precedentemente ci sono stati casi storici di proteste che sono già passate alla storia. Ad esempio, nel dicembre 2017 divenne virale la foto di Vida Movahedi mentre sventolava un velo in aria come fosse una bandiera: per lei ci fu una condanna a un anno di carcere.
Ma anche gli uomini hanno i loro grattacapi, visto che esiste un codice d’abbigliamento che vieta di indossare in pubblico pantaloncini o magliette con simboli che rimandino alla cultura occidentale. E questo è uno dei tanti fattori che porta gli uomini a partecipare alle proteste di strada, e che conferma quanto la religione non ha nulla a che fare con quanto sta accadendo in nel Paese iraniano.
Leggi anche: Cittadinanza italiana, un calvario per la disabilità: “Sono in Italia da 20 anni ma non posso averla”