Game of Thrones ormai è giunto al termine da diverse settimane, perciò possiamo discutere del suo finale. Tuttavia, se siete tra chi non ha concluso la serie, prestate attenzione, potreste incappare in qualche spoiler della serie targata HBO. A ogni modo, Game of Thrones ci ha regalato una delle più canoniche visioni di cosa significa evolversi in una società inclusiva. Purtroppo tale obiettivo non è stato raggiunto nella sua pienezza, in quanto ci sono delle riserve che – di riflesso – riguardano anche la nostra attualità.
La serie televisiva Game of Thrones è abituata a emozionare i propri fan con colpi di scena di ogni tipo, ma mai nessuno si sarebbe aspettato quanto accaduto nell’ultima puntata: un mondo sorretto e governato da due persone con disabilità. Da una parte abbiamo Bran Stark, ragazzo su carrozzina diventato re della contea; dall’altra Tyrion Lannister, uomo con nanismo con il ruolo di Primo Consigliere della corona. Vale la pena sottolinearlo, la scelta di queste due figure non è nata per pietismo o raggiro, bensì per una plateale ammissione di valore dei due personaggi. Il primo è l’archivio storico dell’umanità, colui che è stato scelto come contenitore di sapere. Il secondo, invece, è sempre emerso per scaltrezza, furbizia e intelligenza: doti apprezzate anche dagli spettatori. Insomma, la Disabilità Positiva affiora chiaramente. Tuttavia, si tratta di un’inclusione sociale non propriamente completa.
Quanto emerso dal finale di Game of Thrones, dunque, fa pensare che, nonostante i tempi medievali, le basi per una civiltà moderna ci sono tutte. La disabilità è diventata un aggettivo, una condizione, ma non una categorizzazione. Quindi, dov’è il problema? C’è una sorta di incoerenza culturale nella società pensata dal nuovo consiglio del regno. In pratica, due persone disabili ottengono alte cariche istituzionali anche in virtù della loro appartenenza nobiliare, escludendo di fatto ogni democratica elezione (che potrebbe coinvolgere cittadini normodotati e con disabilità sullo stesso livello). Quindi, siamo di fronte a un’inclusione sociale permeata per metà, dove il marchio governativo continua a essere una faccenda elitaria, e la società non dispone i mezzi culturali per creare un’integrazione completa.
Il principio da cui nasce la nostra argomentazione riguarda il fatto che, attualmente, l’integrazione attuale non è mai garantita nella sua totalità, ma spesso si mette una pezza. Come a professarsi estimatori e difensori di equità sociale, senza però protrarre l’obiettivo fino alla sua reale conclusione. Un modus operandi, dunque, da cui si evince una base culturale che ancora non è in grado di elaborare un pensiero semplice: la Disabilità Positiva passa soprattutto per l’inclusione completa di ogni tipo di individuo, appartenente a ogni classe sociale. È semplice.