Il Festival di Sanremo (non) è la kermesse della musica popolare italiana. O meglio, non dà spazio solo alla musica. Nel corso degli anni abbiamo visto in più occasioni come la manifestazione canora abbia aperto sempre più le proprie porte a tematiche sociali diventate mainstream o a categorie sociali spesso dimenticate dalla politica e dal mondo dell’informazione.
In questo insieme di persone relegate a minoranza sociale ci sono anche le persone con disabilità, alcune delle quali sono riuscite a ritagliarsi uno spazio sul palco dell’Ariston, principalmente per celebrare il proprio lavoro, ma sempre accusando quella patina super-eroistica e pietistica che contraddistingue una certa narrazione nazional-popolare.
Ma quali sono gli episodi che più di tutti descrivono questo contesto? Abbiamo raccolto alcune esibizioni che riflettono quanto ancora il Festival di Sanremo può migliorare sul tema della disabilità (porgiamo fin da subito le nostre scuse se abbiamo dimenticato qualche nome).
Quando il Festival di Sanremo ha usato un linguaggio improprio (e non solo)
Partiamo da un concetto: viene sempre prima la persona e poi la disabilità, così come viene sempre prima il professionista e poi tutto il resto: indipendentemente dalla propria condizione, un artista, un professionista o un atleta va ammirato/criticato per ciò che produce e per i risultati conseguiti. Spesso però la condizione di disabilità emerge a priori, senza che il diretto interessato possa controllare il flusso narrativo di certe descrizioni.
E quando diventa argomento predominante, la disabilità viene bersagliata come una condizione di svantaggio, quando semmai è il contesto che rende sfavorevole la disabilità: tra barriere architettoniche e culturali di vario tipo, a molte persone con disabilità non vengono concessi gli strumenti adeguati e idonei a potersi garantire una reale autonomia. E quindi la retorica di celebrare la diversità, quando essa stessa trova all’interno della società dei “marciapiedi” invalicabili costruiti dalla società stessa, rischia di essere puerile.
Alcune volte questa retorica ha trovato spazio anche al Festival di Sanremo, sebbene il palco dell’Ariston potrebbe (e dovrebbe) essere l’occasione perfetta per migliorare certi discorsi – soprattutto in fuzione dello share che raccoglie a ogni edizione.
Pensiamo ad esempio al Festival di Sanremo 2021, quando Amadeus presentò Donato Grande, attaccante della Nazionale italiana di Powerchair Football, come “un ragazzo che soffre di una patologia”, un concetto rimarcato anche quando, parlando di una necessaria equità nella società, utilizza l’espressione “soffre di disabilità”.
In primis dovrebbe essere chiaro che disabilità e malattia sono due rette parallele culturali che non si devono incontrano, oltre al fatto che la parola “soffre” rafforza ancora di più lo stereotipo di una comunità che guarda alla persona con disabilità come un individuo malaticcio. Piccolo encomio invece per l’immagine del giocatore che scambia due passaggi con il campione del Milan Zlatan Ibrahimovic, a dimostrazione del fatto che affermare l’equità richiede veramente poco.
Facendo un passo indietro nel tempo invece, all’edizione 2018 del Festival di Sanremo condotta da Carlo Conti, troviamo i Ladri di Carrozzelle. Fin qui nulla di strano, se non due caratteristiche: all’epoca, la band contava già 28 anni di grande attività, e stupisce molto come sia passato così tanto tempo prima che sia stata data l’opportunità alla formazione artistica di calcare il palcoscenico dell’Ariston; dopo l’esibizione, Conti parlerà della band come “esempio di vita“, rimarcando uno stereotipo pietistico sulla disabilità dimenticandosi della sostanza del prodotto (in questo caso i brani realizzati dal complesso).
Non solo parole però, ma anche spazi. Nel 2022 la disabilità fu rappresentata anche dall’attrice Maria Chiara Giannetta, che raccontò la sua interpretazione di Blanca, una stagista cieca della serie “Don Matteo“. Fu un’occasione anche per sottolineare quanto il suo lavoro sia stato impreziosito dall’aiuto di alcuni consulenti, saliti sul palco con lei, che però ebbero pochissimi secondi per parlare, quando sarebbero dovuti essere il fulcro del discorso.
Insomma, fin qui il Festival di Sanremo ha dimostrato di non riuscire ad abbandonare del tutto una narrazione distorta della disabilità, vista sempre come accezione negativa o dettaglio determinante nell’affermare l’identità di un artista, un professionista o una persona. Ed è capitato anche in altre occasioni.
Leggi anche: “Nonno Seduto”, sit-com di Michele Sanguine: “Ma non è sulla disabilità”
Quando il Festival di Sanremo ha tentato di superare i propri limiti
Il gioco di specchi per riuscire a portare la disabilità sul palco dell’Ariston è complesso: parlare di questo argomento, escludendo tratti pietistici e super-eroistici, in un contesto culturale condizionato fortemente da questi aspetti, è veramente un’impresa. Va detto però che la kermesse musicale ha provato a saltare oltre l’ostacolo, con risultati comunque opinabili da caso a caso.
Un ottimo esempio di come si può raccontare la disabilità, senza però snaturare la persona o il professionista, ci arriva dal Festival di Sanremo 2022, quando la nota attrice Antonella Ferrari si esibì in uno stupendo e rabbioso monologo da cui emersero due considerazioni: da una parte, l’incredibile performance che solo una professionista del settore è capace di realizzare; dall’altra, l’esigenza di rammentare, anche urlando, che una persona non va caratterizzata interamente per la sua condizione (incredibile e prezioso l’urlo “Io non sono la sclerosi multipla”).
Grande emozione anche la prestazione di Ezio Bosso al Festival di Sanremo 2016: una magistrale esecuzione del suo lavoro di artista, sporcata però dall’esigenza contestuale di voler a tutti i costi ricordare la sua condizione di vita. Ezio Bosso, prima ancora che “un maestro di vita”, è stato uno dei migliori professionisti nel suo campo, e andrebbe ricordato principalmente per questo motivo.
Durante l’edizione del 2012 condotta da Gianni Morandi invece la famosa ballerina Simona Atzori mostrò la sua professionalità su una coreografia di Daniel Ezralow, senza aggiungere altro, ma mostrando semplicemente le sue capacità di danzatrice. Ancor prima invece è doveroso citare Pierangelo Bertoli, che portò alcuni suoi brani sul palcoscenico di questa preziosa kermesse (“Spunta la Luna dal monte” al Festival di Sanremo 1991 e “Italia d’oro” nel 1992).
Infine, ricordiamo la vittoria nella sezione “Nuove Proposte” di Andrea Bocelli al Festival di Sanremo 1994, con il brano “Il mare calmo della sera”, edizione tra l’altro vinta da Aleandro Baldi con “Passerà“, un artista premiato per la sua natura di cantante, indipendentemente dalla sua disabilità. Tutti nomi che oggi sono citati ogni volta che si parla di grandi artisti della musica italiana.
In conclusione, il Festival di Sanremo può fare meglio, come tutti noi, visto che la kermesse è (anche) espressione culturale di un popolo e dei suoi gusti: la disabilità non dovrebbe essere un argomento da trattare, quanto una consuetudine da mostrare senza troppi fronzoli.
Giusto invitare personalità con disabilità che hanno spiccato per certi motivi, ma bisognerebbe evitare quella patina superficiale che porta inevitabilmente a osservare queste persone come vittime dell’ingiustizie della vita. Parliamo sempre di professionisti e persone, di musica, di sport, di arte: insomma, viene sempre prima la persona, e poi la disabilità.
Leggi anche: Scoppiati Diversamente Band: “Siamo persone, non ha senso capire se siamo disabili o no”