“In Olanda ogni anno ci sono circa 200.000 nuovi nati. Di questi, circa 1000 muoiono entro il primo anno di vita. Per circa 600 la morte è preceduta da una decisione medica sul fine vita.”
(Eduard Verhagen
New England Journal of Medicine – 10 marzo 2005)
Affrontare l’argomento del “fine vita” è sempre difficile e complicato trattandosi di una questione estremamente delicata. Ma come altre tematiche di natura etica, non esiste qualcosa di certamente giusto o sbagliato, una verità assoluta da tutti condivisa. Esistono opinioni diverse, il più delle volte espresse in relazione alle esperienze vissute che necessariamente variano a seconda del caso e di chi è a viverle. Il grande difetto che spesso accomuna molti di noi è la facilità con cui si apre bocca per dire la propria senza però essere altrettanto disponibili ad ascoltare quello che gli altri hanno da dire, come se si partecipasse ad una gara dove vince chi urla più forte, ma se nessuno sta ad ascoltare è difficile comprendere chi possa essere il vincitore. E così inevitabilmente il significato delle nostre parole perde spessore, valenza, importanza, perché è nel momento stesso in cui vogliamo imporre le nostre idee che queste perdono forza ed equilibrio.
Ciò che quindi mi limiterò a fare sarà esporre dei fatti, osservare e descrivere diversi punti di vita, raccontare di episodi realmente accaduti così da fornire quanti più elementi possibili necessari, quanto meno, a farsi un’idea generale sull’argomento. Niente di più. Un semplice sguardo dall’alto, umile e super partes.
Parlare di eutanasia infantile significa necessariamente parlare di scelte difficili che qualcuno, in questo caso i genitori o chi ne fa le veci, deve prendere per il figlio, decidendo tra la vita e la morte in situazioni estremamente drammatiche. Un processo inevitabile quando si parla di neonati o bambini molto piccoli che, proprio per la loro giovane età, sono incapaci tanto di badare a se stessi quanto di esprimere la propria volontà o le proprie idee. Una vita che dipende in tutto e per tutto da un’altra.
In ambito pediatrico sicuramente la scelta sull’avvio o la continuazione di trattamenti terapeutici in neonati con gravi patologie rimane una (se non la) delle più difficili. Nonostante infatti il progresso medico-scientifico sia in continua crescita ed evoluzione, esistono delle patologie incurabili associate ad un intenso dolore per le quali non esiste alcuna speranza di miglioramento che la stessa terapia farmacologica riesce per lo più ad attenuare, più che a risolvere in maniera definitiva.
Come è noto, il dolore è un qualcosa di soggettivo, la cui intensità varia da persona a persona in relazione alla soglia minima che ciascuno di noi avverte. Esistono però dei metodi oggettivi di misurazione del dolore, che permettono di esprimere una valutazione generale del tipo di condizione nella quale la persona si trova (è importante sottolineare che ormai da diverso tempo il dolore è considerato il quinto parametro vitale, al pari di frequenza cardiaca e respiratoria, temperatura e pressione arteriosa). Mentre ad un adulto, consapevole ed in grado di esprimersi, per valutare l’intensità del dolore sarà “sufficiente” somministrare una delle diverse scale di valutazione apposite, in un bambino, incapace di comunicare e quindi di esprimersi, saranno proprio i parametri vitali ad essere valutati. In presenza di dolore infatti, il bambino presenterà un aumento del battito cardiaco e della frequenza respiratoria, spesso accompagnati da alterazioni anche di altri parametri.
Contrariamente a quanto si era portati a credere fino a non molto tempo fa, grazie ai più recenti studi anatomofisiologici e comportamentali è emerso che il sistema nervoso centrale umano è anatomicamente e funzionalmente competente per la nocicezione (quindi in grado di avvertire lo stimolo doloroso) già a partire dalla 23esima settimana di gestazione. E non solo. A parità di stimolo doloroso, il neonato percepisce un dolore più intenso rispetto all’adulto.
La questione centrale della nostra argomentazione dunque, è la seguente: è giusto adottare procedure destinate ad accompagnare alla morte bambini e neonati incapaci di esprimere la propria volontà, o è più giusto tenerli in vita anche se portatori di malattie gravi associate ad acute sofferenze che non possono essere alleviate? E’ giusto quindi tener conto soltanto della sopravvivenza del bambino o anche della qualità della sua vita?
Il termine eutanasia (dal greco “buona morte”) sta ad indicare l’atto di procurare, in maniera intenzionale e nel suo interesse, la morte di un individuo la cui qualità di vista sia compromessa in modo permanente da una malattia, una condizione psichica o una menomazione.
Si distinguono:
Per eutanasia infantile si intende l’eutanasia di bambini e neonati: in questo caso, per ovvi motivi, si parla di eutanasia attiva, ovvero il soggetto viene condotto a morte tramite un intervento attivo e responsabile di un medico. In qualsiasi stato del mondo tale pratica è considerata illegale poiché dal punto di vista legale corrisponde al reato di infanticidio. L’età minima necessaria (12 anni) per ricorrere a questa pratica stabilita dalla legge dei Paesi Bassi è stata eliminata del tutto a partire dal Belgio.
La principale differenza tra l’eutanasia negli adulti e quella infantile è che quest’ultima riguarda soggetti incapaci di esprimere la propria volontà e rispetto ai quali quindi è impossibile affermare con certezza la volontà di scegliere un trattamento piuttosto che la sospensione dello stesso.
A questo punto è giusto porsi la seguente domanda: quando ha avuto origine la questione eutanasica?
E’ il 1973 ed il Tribunale Distrettuale olandese condanna la Dott.ssa Geertruida Postma per il reato di eutanasia per aver messo fine alla vita della madre gravemente malata. Fu la stessa Postma a denunciare l’accaduto attirando a sé l’attenzione dell’opinione pubblica con l’intento di sensibilizzarla sull’argomento e sperando in una revisione giuridica delle norme che regolavano il suicidio assistito e l’eutanasia. La Postma riesce nel suo intento e la sua storia diviene subito un caso mediatico. I medici del Distretto firmano una lettera aperta indirizzata al Ministro della Giustizia olandese dichiarando che l’eutanasia era comunemente praticata nel paese, seppur non in maniera evidente.
Nonostante il reato di eutanasia fosse punibile con la reclusione fino ad un massimo di 12 anni, la sentenza emessa dal tribunale nei confronti della Dott.ssa Postma fu più simbolica che altro: per omicidio di una persona consenziente una condanna ad una settimana di carcere con la sospensione condizionale della pena in aggiunta ad un anno di libertà vigilata. Sulla decisione del giudice influirono in gran parte i criteri di valutazione fissati dall’Ispettore sanitario del Distretto al fine di aiutare i medici a valutare se un comportamento si potesse o meno ritenere eutanasico. Una base importante per la successiva accettazione dell’eutanasia e del suicidio assistito.
Sulla scia del ‘caso Postma’ seguirono poi diversi altri casi che contribuirono ad ampliare gli orizzonti della questione eutanasica che, pur rimanendo illegale come il suicidio assistito, sembrava esser sempre più compresa e tollerata. Si inizia così non soltanto a parlare di situazioni mediche in cui il paziente riversa in condizioni cliniche gravi ed irreversibili, ma si pone l’attenzione anche sul malessere psichico e psicologico da alcuni ritenuto altrettanto grave e invalidante.
Negli anni ’90 nel paese emergono i primi casi di eutanasia infantile: in un caso un medico aveva facilitato la morte di un bambino affetto da una forma grave di spina bifida mentre in un altro la procedura eutanasica era stata praticata ad un bambino affetto da trisomia 13. I medici coinvolti in tali procedure agivano ovviamente sempre con il consenso dei genitori ed anzi, spesso lo facevano in seguito alla richiesta dei familiari stessi di porre fine alle sofferenze del figlio. Il tutto nel timore di essere perseguitati per omicidio.
Allo scopo di comprendere realmente la frequenza con cui in Olanda suicidio assistito ed eutanasia vengono praticate, nel 1990 lo Stato promuove uno Studio nazionale garantendo ai medici sia l’immunità che l’assoluto anonimato in modo da poter far riferimento a dati quanto più veritieri possibili. Pubblicato l’anno seguente, dallo studio è emerso che:
Dallo studio è emerso inoltre che il 50% dei medici olandesi aveva suggerito l’eutanasia ai pazienti.
Con l’inserimento dei “requisiti di dovuta diligenza” viene accettata l’esecuzione di interventi di natura eutanasica purché rispettino precise condizioni (i requisiti appunto); in caso contrario l’atto rimane sanzionato penalmente.
Il governo olandese giustificò la scelta di approvare questa riforma adducendo come motivo primario la necessità di portare alla luce tutti i casi di eutanasia che ogni anno si verificavano nel Paese (tale pratica infatti era piuttosto diffusa già da tempo) e che il più delle volte i medici, per paura di ripercussioni personali, tenevano all’oscuro. La legge quindi sarebbe servita a dare ordine e ad uniformare i comportamenti del personale sanitario in materia di eutanasia e suicidio assistito così da poter assicurare la corretta e severa applicazione di criteri di valutazione uniformi.
Nonostante ciò, le cose non andarono esattamente come auspicato dal governo e la riforma scatenò una reazione accelerativa, soprattutto nei primi tempi, di allargamento dei confini per accedere alla morte su richiesta. Tre anni più tardi, l’associazione professionale dei medici dei Paesi Bassi (la Royal Dutch Medical Association – KNMG) sostiene in una relazione che i criteri allora in vigore per applicare l’eutanasia sono inutili e che tale pratica deve essere accessibile a tutti, anche a coloro che, seppur in salute, si sentono pronti ad interrompere la propria vita.
Qualche mese dopo l’University Medical Centre Groningen ammette l’applicazione dell’eutanasia in neonati e bambini con malattie terminali o nati con gravi disabilità come le forme più complicate di spina bifida. Nel giugno del 2005 l’Associazione Olandese dei Pediatri formalizza, con l’approvazione del “Protocollo di Groningen”, la pratica dell’eutanasia infantile, anch’essa diventata una prassi acquisita.
La questione eutanasica in Olanda è andata via via con il tempo espandendo i propri orizzonti: all’inizio contemplata solo per gli adulti in casi di eccezionale gravità come malattie terminali o gravi disabilità, poi estesa a categorie sempre più ampie della popolazione: da coloro affetti da sofferenza psicologica o psichica a chi, nonostante in salute, fosse stanco di vivere, a chi volesse porre fine alla propria vita semplicemente perché in età avanzata.
Per arrivare poi, all’eutanasia infantile: i giovani tra i sedici e i diciotto anni possono ora chiedere la morte purché informino i genitori o il tutore della loro decisione (nonostante questi non abbiano il potere di opporsi); gli adolescenti tra i dodici e i sedici anni capaci di intendere e di volere affetti da malattia incurabile o con dolore cronico che non possa essere alleviato, possono fare richiesta di morte purché i genitori diano il proprio consenso. Per ciò che riguarda bambini e neonati da 0 a 12 anni con malattie incurabili, dolore intenso o gravi disabilità invece, saranno i genitori a dover fare richiesta di pratica eutanasica.
Il documento precisa che, nonostante alcuni casi possano apparire contrari alla Legge dei Paesi Bassi, qualsiasi eventuale azione legale è a discrezione del magistrato. Sarà invece il medico a decidere e a valutare, in base al caso clinico che gli si prospetta, se opportuno considerare la possibilità di eutanasia o meno.
Per supportare il medico e la famiglia in questo tipo di decisioni, il documento delinea le categorie legali e le procedure decisionali relative ai vari casi evidenziando i criteri della pratica medica in base ai quali giudicare se, in caso di intervento eutanasico, si tratti della scelta migliore per il soggetto.
Il documento parlamentare dei Paesi Bassi si basa essenzialmente su un protocollo, noto come Protocollo di Groningen e già approvato nel giugno dello stesso anno dall’Associazione dei Pediatri dei Paesi Bassi, considerato l’indicatore delle linee guida nazionali in materia di Eutanasia infantile. Nonostante ciò, il testo parlamentare sottolinea la possibilità di ignorare tale protocollo poiché esso non ha alcuna valenza legale.
Fu Eduard Verhagen, direttore di una Clinica Pediatrica a Groningen, ad elaborare il Protocollo di Groningen, poi sottoposto al governo olandese e pubblicato dal New England Journal of Medicine il 10 marzo 2005.
Con questo documento Verhagen faceva richiesta di fornire a tutti gli ospedali del paese delle linee guida sull’eutanasia infantile spiegando che “Dei 200mila bambini nati ogni anno in Olanda, circa 1000 muoiono nel primo anno di vita, e per 600 di loro la morte è preceduta da una decisione medica sul fine vita”.
Inoltre, sottolinea il medico olandese, l’accompagnamento alla morte (sia di adulti che di bambini) in un nessun caso rappresenterebbe una imposizione ma soltanto una possibilità nel caso in cui sussistano caratteristiche drammatiche e vi sia il consenso genitoriale e di diversi medici.
Tra i parametri etici proposti da Verhagen si riconoscono povera qualità di vita, mancanza di autosufficienza, mancata capacità di comunicazione, dipendenza ospedaliera, aspettativa di vita.
Il Protocollo di Groningen specifica quali siano le condizioni necessarie affinché le misure di fine vita in bambini e neonati possano considerarsi accettabili:
Il documento specifica inoltre che l’eutanasia infantile può essere applicata in due diverse situazioni:
I bambini ed i neonati per i quali può esser presa la decisione di fine vita sono suddivisibili in tre diversi gruppi:
Le decisioni prese in merito a bambini appartenenti all’ultimo gruppo sono le più difficili e delicate, per questo motivo è fondamentale che in questo caso ancor più degli altri l’equipe medica disponga di una prognosi il più accurata possibile sulla quale confrontarsi anche con i genitori.
I criteri della dovuta cura corrispondono a quegli indicatori che dovrebbero aiutare il magistrato a giudicare se l’accompagnamento alla morte sia avvenuto nel rispetto di specifici comportamenti o meno. Tali criteri variano a seconda che si tratti di gravidanze in stato avanzato o di neonati.
Neonati
♦ La sofferenza del bambino, come sostenuto dall’opinione medica prevalente, era insopportabile e senza possibilità di miglioramento; non c’era quindi alcun dubbio sulla diagnosi e sulla prognosi infausta del bambino
♦ I genitori hanno espresso il proprio consenso
♦ Il medico ha informato accuratamente i genitori del bambino circa la diagnosi e la prognosi ed insieme sono giunti alla conclusione che, date le condizioni del piccolo, non esisteva alcuna alternativa
♦ Il bambino è stato visitato anche da un medico ‘esterno’ non direttamente coinvolto nel trattamento la cui opinione si è mostrata allineata a quella del collega e dell’equipe in generale
♦ La morte è avvenuta con la dovuta cura medica e attenzione.
Gravidanze in stato avanzato
♦ la condizione clinica del feto è riconducibile alla seconda categoria: qualsiasi trattamento medico dopo la nascita del bambino quindi, come sostenuto dall’opinione medica prevalente, non sarebbe in alcun modo in grado di modificare in positivo la situazione; dunque, la diagnosi e la prognosi del feto non lasciano alcun dubbio
♦ il feto sta soffrendo o comunque si ritiene che soffrirebbe una volta nato, senza prospettive di miglioramento
♦ la richiesta di interruzione di gravidanza è stata avanzata dalla madre a causa della sofferenza fisica o mentale causata dalla situazione
♦ i genitori sono stati informati dall’equipe medica in maniera esaustiva circa la situazione clinica e la prognosi del figlio. Alla luce dei fatti quindi il medico, insieme ai genitori, è giunto alla conclusione che non c’era alcuna alternativa ragionevole, vista la condizione del feto
♦ la decisione medica è stata presa da un’equipe composta anche da un medico indipendente e non direttamente coinvolto nella gestione terapeutica del caso che ha analizzato con cura la situazione
♦ la gravidanza è stata interrotta con le dovute cure mediche e attenzione.
Il 2 marzo 2014 il Parlamento del Belgio approva una legge, firmata anche dal re, secondo la quale un bambino di qualsiasi età in grado di intendere e di volere che patisce gravi sofferenze (eccetto quelle di natura psicologica) che non possono essere alleviate e quindi affetto da una patologia per la quale non esiste una risoluzione, può richiedere che queste vengano interrotte per mezzo di un’iniezione letale.
Secondo la legge belga quindi il bambino deve essere valutato in grado di comprendere il significato della scelta che compie da uno psicologo ed uno psichiatra e dovrà comunque avere il consenso di entrambi i genitori o di chi li rappresenta.
I sostenitori della legge hanno specificato che:
– nessun medico è comunque obbligato ad applicarla
– le cure palliative saranno garantite sempre
– ogni richiesta di eutanasia avanzata da un soggetto minorenne sarà esaminata dall’intera equipe medica che valuterà se accoglierla o meno.
Come già detto, il Protocollo di Groningen nasce con l’intento di ‘regolamentare’ una pratica già diffusa nel paese da diverso tempo, seppur non apertamente dichiarata. Verghagen ed i suoi sostenitori ritenevano quindi che in questo modo non soltanto avrebbero dato la possibilità di decidere per la propria vita anche ai più giovani o ai loro genitori, ma si sarebbe potuta inquadrare la pratica medica all’interno di un preciso codice, un protocollo appunto, che ogni medico sarebbe stato tenuto a rispettare nel momento in cui decidesse di praticare l’eutanasia:
Con il Protocollo di Groningen il controllo legale sull’eutanasia neonatale ed infantile si basa sulle dichiarazioni dei medici seguite dalle indagini dei procuratori. Ad avvenuto decesso del paziente quindi, il corpo deve essere esaminato da un medico legale che a sua volta ha il dovere di informare il procuratore distrettuale che valuterà se sono stati rispettati o meno i criteri previsti dalla legge. Il caso poi viene presentato al Collegio dei Procuratori distrettuali, ma la decisione finale è presa dal ministro della Giustizia. Nel caso in cui emerga che il medico responsabile della pratica eutanasica non ha rispettato correttamente tutti i criteri previsti, contro di lui potrà essere intrapreso un procedimento penale.
La legge olandese quindi specifica chiaramente la non punibilità dei medici che abbiano agito per fini terapeutici rispettando i criteri previsti e punisce chi, non essendo medico, mette fine alla vita di una persona anche se agisce con l’intento di rispettare ed esaudire una sua volontà.
Una storia che ha fatto il giro del mondo e che è stata sulla bocca di tutti è quella del piccolo Charlie, il bambino inglese di appena dieci mesi affetto da una rara malattia mitocondriale causa di grandi sofferenze fisiche e che lo rendeva incapace di sopravvivere senza il supporto delle macchine.
Nonostante la drammaticità della condizione di Charlie i suoi genitori, i signori Gard, hanno lottato fino all’ultimo per tenere in vita il piccolo andando contro le molteplici opinioni mediche favorevoli alla cessazione delle sue sofferenze. I signori Gard hanno così richiesto l’attenzione da parte dei media ed ecco che la storia di Charlie ha fatto il giro del mondo scuotendo la coscienza anche di chi è difficile credere ne abbia una, a partire dal Presidente Trump per arrivare al nostro Salvini. Tutti intenti ad alzare la voce per gridare al mondo la propria compassione senza poter fare ovviamente niente di concreto; tanto per raccontare a se stessi la favola di possedere una morale.
A decidere per il destino del piccolo Charlie è stata alla fine l’Alta Corte, che già in primavera aveva espresso la propria posizione, condivisa poi dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo: data la condizione clinica incurabile, il piccolo Charlie è stato staccato dalle macchine che lo tenevano in vita.
A decidere della vita del piccolo Charlie non sono stati i genitori poiché loro, proprio per il ruolo che ricoprono, non avrebbero mai avuto il coraggio di dire basta. C’è chi ha parlato di eutanasia infantile, chi di omicidio, chi di crudeltà.
Ma, come obiettato da molti, non è altrettanto vero che l’amore di un genitore per il proprio figlio è così forte e la speranza è così profondamente radicata da poterlo spingere a non volersene separare mai, nonostante tutto?
Ciò è dovuto alla sempre più diffusa decisione delle mamme di ricorrere agli screening prenatali ch negli anni sono diventati sempre più economici, poco invasivi, e con un’accuratezza dell’85%. Così la quasi totalità delle mamme che vi si sottopongono, in caso di risultato positivo, decide di interrompere la gravidanza (la legge islandese consente l’aborto anche dopo le sedici settimane in caso di anomalie del feto come la Sindrome di Down).
In Islanda così come in altri paesi europei i test di screening prenatali sono stati introdotti nei primi anni 2000: si tratta ovviamente di test facoltativi della cui esistenza il governo olandese cerca di informare quante più donne possibili, così da garantire loro una estesa conoscenza di tutti gli strumenti medici esistenti utili a compiere scelte precise e consapevoli.
Poiché anche in questo caso le opinioni avverse degli uni e degli altri non hanno tardato ad arrivare e si è giunti a parlare persino di eugenetica (personalmente non vedo come una scelta libera di un individuo o di un nucleo familiare possa essere assimilata ad una politica dittatoriale come quella nazista), credo sia importante essere a conoscenza di alcuni dati piuttosto recenti: negli Stati Uniti il tasso di aborto legato alla scoperta di Sindrome di Down è pari al 67%, in Francia al 77%, nel Regno Unito al 90% e in Danimarca al 98%.
Quando i soggetti delle nostre argomentazioni sono questioni etiche è bene, più che in altre circostanze, prestare attenzione alle parole da usare.
Quando parliamo di diritto alla vita, di libertà di scelta, di cosa è giusto o sbagliato, dovremmo armarci di umiltà e soprattutto, dovremmo saper ascoltare, pronti a dubitare delle nostre posizioni. Non esiste una verità assoluta, ma solo quella in cui ognuno di noi crede in base alle proprie esperienze, a ciò che ha vissuto sulla propria pelle o su quella di un suo caro che tutti i giorni accudisce, lava, veste, rassicura. Così quando si usano termini come eugenetica, olocausto e omicidio, credo bisognerebbe fermarsi chiedendosi cosa significhino davvero, anche e soprattutto nel rispetto di coloro che, a causa della crudeltà di cui solo l’uomo è capace, hanno vissuto tali atrocità veramente, e non per sentito dire.
Esulando per un attimo dalla specificità della questione ‘Eutanasia infantile’, credo che in una “società giusta” ognuno dovrebbe esser libero di poter scegliere cosa sia meglio per se stesso o la sua famiglia, ovviamente a condizione che nessuna della sue azioni sia nociva per il prossimo.
Perché, difendere il diritto alla vita non dovrebbe significare difendere il diritto all’autodeterminazione che ognuno di noi dovrebbe avere? Decidere per la propria vita non significa decidere sì di vivere, nonostante tutte le difficoltà, ma anche di morire quando ci si rende conto che quella che viviamo non è la vita che vogliamo?
Credo che nessuno di noi dovrebbe porre un limite alle proprie conoscenze e che invece dovrebbe concedersi l’opportunità di conoscere il mondo attraverso il beneficio del dubbio, l’unico strumento che davvero ci offre la possibilità di andare oltre il ‘nostro recinto’ stimolandoci sempre ad imparare nuove cose.
Credo che ognuno di noi dovrebbe provare a comprendere l’altro mettendosi nei suoi panni invece di puntargli il dito contro. Proviamo a chiederci più spesso: cosa avrei fatto io al posto suo?
Le parole che usiamo possono essere delle armi più potenti di quelle con cui combattiamo le guerre. I veri conflitti iniziano nei dialoghi mancati, nelle prese di posizione, nelle parole ammutolite o in quelle non udite.
“Il diritto di continuare a vivere non può diventare un dovere, il diritto alla vita non equivale a una coercizione a vivere.”
Hans Kung
Ultima modifica: 17/02/2020