La cannabis in Italia è una tematica che inficia su vari aspetti della società moderna, e non solo sul piano legislativo. Uno dei punti di vista meno approfonditi, per esempio, è il ruolo della ricerca scientifica, che ogni giorno tenta di scoprire varietà e caratteristiche della pianta, salvo però incontrare intoppi burocratici e normativi di vario tipo.
Perché studiare la cannabis è complicato?
L’elenco degli ostacoli che un ricercatore in Italia deve superare per poter studiare liberamente la cannabis è abbastanza ampio. In questa sede, sottolineiamo i più ostici:
- la ricerca della cannabis comporta costi elevati;
- per tanti anni, questa pianta è stata considerata come narcotico rischioso per la salute, e dunque collocata nella lista degli stupefacenti. Tutto ciò fino al 2 dicembre 2020, quando l’ONU ne ha riconosciuto il valore terapeutico, rimuovendola dalla Tabella IV della Convezione Unica sugli stupefacenti (datata 1961). Al momento, tale decisione non ha determinato particolari conseguenze nel mondo, ma risulta un primo passo importante in favore dell’anti-proibizionismo;
- Essendo una pianta, non può essere brevettata;
- le varietà finora note sono poche rispetto a quelle esistenti, e ognuna di esse presenta valori differenti di THC, CBD e altre sostanze contenute nella pianta;
- gli effetti prodotti dalla cannabis non sono ancora completamente noti;
- lungaggini burocratiche;
- illegalità diffusa.
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“Noi, ricercatori, trattati quasi come spacciatori”
Insomma, studiare la cannabis è un’impresa tutt’altro che semplice, e spesso nasconde delle controversie particolari che possono rendere vano il lavoro della scienza. Lo sa bene Marco Martinelli, giovane ricercatore e divulgatore scientifico italiano, il quale ci ha spiegato (durante una manifestazione di Meglio Legale e 6000 sardine) che “il grande problema della cannabis terapeutica sono i permessi: il ricercatore viene trattato dal Ministero della Salute quasi come fosse uno spacciatore”.
Questo perché, secondo Martinelli, esistono regole “assurde” che “non tengono conto dei processi dei ricercatori”. Ad esempio, ha raccontato sempre il giovane, “la Guardia di Finanza si aspettava che noi (i ricercatori, ndr) gli riconsegnassimo 10 piante su 10. Ma molti processi che utilizziamo sono distruttivi per la pianta: quando si estrae il DNA o quando si fa un’analisi per controllare quanti metabolismi ci sono, la pianta si incendia e passa per macchinari che distruggono il materiale. Quindi la cannabis sparisce, ma non l’avevamo fumata, bensì l’abbiamo utilizzata per fare delle analisi”.
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