Barbara Garlaschelli è una nota scrittrice con disabilità, autrice nella sua versatilità di numerose opere, tra cui Sirena – Mezzo pesante in movimento, romanzo autobiografico di successo, tant’è ch’è stato stampato per quattro editori diversi. Recentemente, a febbraio 2019, ha pubblicato una nuova storia, Il cielo non è per tutti, dopo che, nel 2017, affrontò il tema del binomio sessualità-disabilità in Non volevo morire vergine. “Non generalizzo sul tema”, ci spiega al telefono Barbara Garlaschelli. “Ognuno ha la sua storia”.
Appunto, parliamo di Non volevo morire vergine, Barbara Garlaschelli. Come si può raccontare la disabilità senza cadere nel pietismo?
“C’è anche il problema opposto, si è passati dal pietismo al disabile visto come un eroe. Non abbiamo mai vie di mezzo [ride]. Come si fa? Bisogna essere dei bravi scrittori per affrontare qualsiasi tema. Con Non volevo morire vergine, ho cercato di essere molto onesta, raccontando il mio punto di vista, quello che penso su sensualità e disabilità. Secondo me, una delle chiavi di lettura per leggere il mondo è l’ironia, essere capaci di ridere su di sé, degli altri e con gli altri. E dissacrare certi temi che sono considerati tabù, come la disabilità e il sesso. Tra l’altro, questo tema lo avevo già affrontato nel 2015: avevo scritto una serie di finte lezioni su Facebook, Sex and disable people, da cui è nato un reading musicale scritto a quattro mani con l’autrice Alessandra Sarchi, ripresa ora sul mio sito Sdiario e lette da Viviana Gabrini. Forse Non volevo morire vergine ha un po’ origine da lì, da queste lezioni di sessualità e disabilità. Lezioni comiche, ovviamente”.
Ecco, l’importante è scherzare con la disabilità e non su di essa. Secondo Barbara Garlaschelli, esiste un limite da non varcare per scherzare con la disabilità?
“Il limite è quello del buongusto, dell’educazione e del rispetto. Deve esserci in ogni essere umano. Se io rispetto le persone, posso scherzare su qualunque cosa. Il rispetto lo senti, lo percepisci. Un conto è dissacrare e affrontare gli argomenti, un conto è essere sprezzanti, maleducati od ottusi”.
Inoltre, tornando al binomio sesso e disabilità, sembra un tabù di cui non bisogna parlare.
“È un tabù, si ragiona per stereotipi. Col fatto che siamo delle persone disabili, siccome il nostro corpo o la nostra mente in parte non funzionano, a loro volta si pensa che le nostre pulsioni non funzionino. C’è l’ignoranza di base di non conoscere. È il pericolo maggiore, e per combatterlo bisogna scriverne. C’è anche da dire che siamo in un paese cattolico, non gioca a nostro favore. Si crede che il disabile sia un angelo senza sesso. Quindi, generalmente, la sessualità o si tratta portandola in vacca, scherzandoci senza limiti, o non affrontandola proprio. Invece fa parte della vita di tutte le persone. Bisogna parlarne, soprattutto quando diventa un tabù, come fosse qualcosa da nascondere”.
Invece, per quanto concerne la tua recente opera, Il cielo non è per tutti, cosa ti aspetti?
“Mi aspetto di raggiungere il maggior numero di persone, perché i lettori sono il mio punto di riferimento. Non credo negli scrittori che scrivono per se stessi: tu scrivi perché speri che ti leggano. In questo romanzo, affronto temi che per me sono molto importanti. Racconto una storia di due ragazzini, Alida e Giacomo, due adolescenti, che stanno vivendo il periodo più particolare di una persona, che è quello dell’abbandono dell’infanzia e l’entrata ufficiale nella vita adulta. Il momento della morte dell’infanzia. Questi due ragazzi, entrambi con una famiglia disfunzionale, ad un certo punto decidono di fuggire da tutte le tematiche che vivono sulle loro spalle, perché non credono sia giusto che pesino su di loro in quanto giovani. Un altro tema che affronto è la mancanza di comunicazione all’interno delle famiglie e il fatto che esistono persone che fanno parte della nostra società non considerate, come Regina, la madre Alida, una donna albanese che di mestiere fa le pulizie nelle case degli italiani. Giacomo, invece, è un ragazzino italiano, ma anche lui vive una serie di problematiche da cui non sa come uscirne. La loro fuga, che non durerà tantissimo, sarà piena di accadimenti”.
In un momento storico come quello attuale per il libro, quant’è importante che l’opinione pubblica si avvicini alla disabilità come lettore?
“Il ruolo del lettore è fondamentale, avvicinare la lettura alle persone è difficile, lo è sempre stato, soprattutto per un popolo italiano, prevalentemente composto da non lettori. Adesso, con l’avvento dei social, ancora di più. Non ho una formula magica per avvicinare il lettore ai libri, se non che gli scrittori realizzino delle belle opere. Dovrebbe partire anche dalle scuole e dalle famiglie. Sono diventata una forte lettrice perché provengo da una famiglia di forti lettori. Tuttavia credo che tu non possa obbligare le persone ad avere una passione: leggere è una passione. Puoi avvicinarle alla lettura anche con un po’ di fortuna. Sto pensando alle scuole: obbligare qualcuno a leggere non paga moltissimo, non è semplice. C’è anche il discorso che il mondo dell’editoria sta cambiando: noi siamo un popolo di non lettori, ma tutti scriviamo, perché pensiamo sia una cosa semplice. Una risposta non esiste, tutto quello che posso fare come scrittrice è dare il meglio di me”.
Qual è il significato di Disabilità Positiva di Barbara Garlaschelli?
“Il significato che ho dato alla mia vita da disabile è non arrendersi. Col fatto che sono diventata disabile (a 15 anni per la rottura di una vertebra a causa di un tuffo in acque basse, ndr), ho sempre cercato di costruire la strada che avevo in mente. Tutto ciò ammesso che tu abbia un sogno da perseguire. Io ce l’avevo, era diventare una scrittrice. Ho continuato a costruire la mia strada nonostante l’incidente e la disabilità”.