Adottare un bambino disabile in Italia è una pratica disciplinata dalla Legge 184 del 1983, ma non è un percorso semplice e breve
In Italia adottare un bambino disabile è un percorso piuttosto complesso – sebbene l’adozione stessa è un percorso accidentato. Nel nostro Paese la pratica è disciplinata dalla Legge 184 del 1983, che nel corso degli anni è stata oggetto di alcune rilevanti modifiche, ma non per alcune situazioni (soprattutto in materia di coppie omosessuali e single).
Ne abbiamo parlato con Emilia Russo, presidente dell’associazione M’aMa- Dalla Parte dei Bambini, più conosciuta come Rete delle Mamme Matte, costituita da un gruppo di professioniste, che si occupa di creare una rete di famiglie accoglienti per persone quasi maggiorenni, con disabilità o con una storia traumatica alle spalle. Alcune di queste sono definite “adozioni difficili”, anche se Russo preferisce usare il termine “complicate”, come ci dice al telefono.
Secondo Russo le adozioni dei bambini disabili sono complicate per due motivi: “Bisogna trovare la famiglia che voglia accogliere un bambino con disabilità, perché la disabilità fa paura. Quando vai al Tribunale per i Minorenni e ti viene letta la disabilità del bambino, risulta difficile accoglierne l’idea stessa, perché non immaginano il bambino ma solo la disabilità. E poi perché nel momento in cui arriva il bambino a casa, i servizi in Italia sono quelli che sono, è difficile avere un aiuto. Spesso vieni lasciato da solo, come quando fai nascere un figlio con disabilità”.
Eppure l’articolo 6 della Legge 184 del 1983 è abbastanza chiaro in materia, poiché in caso di minori di età superiore a 12 anni o con disabilità secondo Legge 104, “lo Stato, le regioni e gli enti locali possono intervenire […] con specifiche misure di carattere economico“. “Solo Torino ha un progetto – ci svela Russo – che aiuta con un supporto economico chi accoglie ragazzi grandi e bambini con disabilità, ma nel resto d’Italia assolutamente no. Certe volte le famiglie che accolgono i bambini disabili non riescono neanche a gestire le risorse delle indennità varie legate alla disabilità finché l’adozione non è conclusa, perché c’è un tutore che gestisce ciò che è del tuo bambino”.
E il tutore non è l’unica figura intermedia a cui bisogna render conto prima dell’adozione definitiva, poiché intervengono anche i servizi sociali e il tribunale, oltre al fatto che esistono 3 fasi: “Collocamento provvisorio, affido preadottivo e fino all’adozione legittimante”. Come se non bastasse, dichiara la presidente di Mamme Matte, “è complicata proprio la gestione: certe volte può capitare che non hai alcuni diritto del tuo bambino perché residente in un’altra regione. Per nostra esperienza seguiamo delle mamme che sentono più semplice per loro avere un bambino con disabilità perché non l’hanno partorito, lo hanno scelto. Per noi le adozioni difficili sono quelle che si complicano con l’adolescenza, quando viene fuori la ferita dell’abbandono, disabilità o meno”.
Dunque il quadro dell’adozione di un bambino con disabilità non è per niente semplice. In base a quanto è stato descritto, i tempi sono molto lunghi, ma non tanto per le beghe burocratiche, quanto perché c’è assenza di pianificazione e progettazione.
“I nostri bambini con disabilità non trovano una casa perché è difficile trovare le famiglie – sottolinea Russo -. Non esiste un database nazionale delle famiglie adottive in Italia. Se il bambino abita a Palermo, ma la famiglia adottiva è a Firenze, questi non si incontreranno mai, perché non sanno l’uno dell’esistenza dell’altra. A oggi dipende tutto dall’accortezza del tribunale, se il giudice manda una richiesta a tutti i tribunali d’Italia, ma alcuni non lo fanno. Magari poi ci sono altri fascicoli che devono essere lavorati, quindi i nostri bambini fanno molta fatica”.
Spesso al centro del percorso ci deve essere il bambino, tuttavia l’adozione deve poggiare gli occhi anche sulla famiglia adottiva. Russo ritiene che oltre all’amore, che “deve essere alla base quando decidi di avere un figlio”, servono altri presupposti nel caso dell’adozione, come “la consapevolezza: il bambino è cucciolino ma poi diventa un adolescente antipatico, con disabilità o senza. La disabilità peggiora alcune volte la fatica: diventano grandi e magari non se ne vanno di casa, devi anche pensare alla gestione di un adulto disabile. Noi ad esempio facciamo vedere anche cosa succede tra 30 anni”.
Inoltre serve tanta formazione, ma non sulla disabilità, bensì “sull’accoglienza di un figlio disabile. Non si può accogliere un bimbo solo perché è un cucciolino carino, devi pensare che poi diventerà adulto. A volte ci capitano famiglie di 50 anni che vorrebbero avere un bambino con Sindrome di Down, spinte da un profondo amore materno e fraterno, senza pensare poi che tra 10 anni non saranno in grado di corrergli dietro. Portiamo sempre le famiglie nella realtà, e nonostante ciò esistono, si rendono disponibili: bisogna semplicemente cercarle”.
Cercarle però è un’impresa vista l’assenza di un database nazionale: “Una banca dati aiuterebbe – ammette Russo -, ma se la rendi immobile e non la aggiorni dopo 3 anni, è inutile. In questo lasso di tempo una mamma sarà diventata mamma in maniera diversa o non vuole più saperne di adottare. Bisogna coltivare le famiglie. Ad esempio noi creiamo una rapporto orizzontare tra le famiglie e uno verticale con i professionisti”.
Quindi, di riflesso, capire anche quante sono le famiglie adottive disponibili risulta complicato. “Anche perché le famiglie crescono, si informano, frequentano altre famiglie, magari con figli disabili, e possono risultare più aperte. L’idoneità adottiva vale 3 anni, e se qualcuno non ci colloquia di volta in volta, perdiamo le risorse: i giudici non lo sanno che queste famiglie sono cresciute”.
Sulla disabilità poi aleggia un altro spettro: la consapevolezza, appunto. Sui bambini con disabilità dai 0 ai 6 anni “la frase che scrivono tutti in riferimento alla condizione disabile è ‘lieve e reversibile‘, che è diverso per ogni famiglia. Una volta ci ha chiamato una famiglia non aperta alla disabilità, ma che non considerava grave una Sindrome di Down. Dopo un mese è arrivato l’appello di un bambino con Sindrome di Down e loro sono diventati genitori strafelici e orgogliosi di questo figlio: ed eravamo partiti con ‘No disabilità’. Il percepito è diverso, può succedere: magari per me un bambino iperattivo è un limite, ma per una mia amica no”.
“Informarsi, frequentare famiglie che hanno già bambini con disabilità, pensarci bene e strabene”: questa la ricetta della presidente di Mamme Matte. “Ok lo slancio emotivo – sottolinea Russo -, ma bisogna pensare che un figlio è per sempre, non è una cosa che poi finisce: è per tutta la vita. È anche importante non rimanere da soli, perché la solitudine ti affatica”.
Nel 2018 il tema dell’adozione di un bambino disabile divenne un fatto di cronaca per la storia di Luca Trapanese, un single che adottò Alba, una bambina con Sindrome di Down. All’epoca Mamme Matte entrò in contatto con Luca e, a oggi, crede che sia “la migliore famiglia per quella bambina. Ma non è vero che non c’erano famiglie per Alba, solo nella mia associazione ce ne sarebbero state tantissime, bisogna solo cercarle”.
Tuttavia queste storie emergono in maniera abbastanza contrastante. Nonostante la legge sia alquanto vecchia, ci sono alcune eccezioni che permettono ai single di poter adottare un bambino. Ciò agli occhi dell’opinione pubblica li mostra come ruote di scorta o scelte di Serie B. “I single non sono famiglie di Serie B – spiega Russo -, ma in alcuni momenti sono le risorse migliori. Nella nostra associazione abbiamo una donna single che ha appena accolto una 16enne: in una famiglia strutturata con altri figli non sarebbe stata bene, invece le due hanno subito trovato affinità. Non è la famiglia che deve avere un figlio, è il bambino che ha diritto ad avere una famiglia”.
Ultima modifica: 16/11/2021